Davide Rossi, in questo libro ricco di riferimenti storici e politici, ma soprattutto antropologici, ci accompagna lungo un percorso in grado di ricollegare passato e presente, attraverso l’Europa balcanico-danubiana. Egli è capace di illuminare i coni d’ombra, ma anche le meraviglie di cultura ed arte proprie di quella parte, ineludibile, del nostro continente.
Già la scelta del titolo di quest’ultima fatica di Davide, “L’Europa incerta”, denota una perspicace capacità di osservazione e sintesi di ciò che caratterizza la modernità, di cui l’Europa è stata motore fondamentale e controverso. Modernità da intendere come permanente ambivalenza delle scelte e risultati che le azioni umane hanno consegnato alla storia. Modernità che segna la vita delle donne e degli uomini con il suo continuo rivoluzionamento di stili di vita, costumi, culture. Portando alla ribalta della storia genti e classi sociali che prima, della storia, subivano passivamente il ritmo.
Sotto questo aspetto, la scelta operata da Davide di visitare l’area balcanico-danubiana, è la più azzeccata e forse rappresentativa di quella parte di modernità, non all’avanguardia nello sviluppo del capitalismo imperialista, ma sicuramente di notevole peso sociale e culturale, che esce sconfitta dalla prima guerra mondiale. Una sconfitta di modelli politici ed antropologici, certamente superati come lo era l’Impero austro-ungarico, ma che porteranno, anche grazie alla sconfitta del movimento operaio e socialista nell’Europa centrale, all’avvento di regimi fascisti variamente articolati. E non è un caso che, come sintomo e caratteristica della nemesi storica mitteleuropea, ci sia la psicoanalisi in quanto teoria dell’inconscio, luogo nel quale si riflettono ed interagiscono gli incommensurabili e tragici cambiamenti di tutta un’epoca.
Se ci focalizziamo sul senso di quell’incertezza, così chiaramente riportata nel titolo, ci rendiamo conto, attraverso questa griglia di interpretazione storica, ma anche psicanalitica, che l’incertezza mai è stata una buona consigliera per l’Europa. È stata, bensì, e troppo spesso, la foglia di fico attraverso la quale essa ha organizzato la perpetuazione violenta del proprio dominio di classe e geopolitico sia all’interno che verso l’esterno. È risaputo come l’identità dell’Europa sia un qualcosa che si costruisce soprattutto in contrapposizione all’altro da sé, e non per graduale accumulazione realizzata da forze autosufficienti ed endogene che si soddisfino nell’assimilare ciò che incontrano nel loro percorso. L’Europa, spesso, è stata incline allo scontro ed alla separatezza piuttosto che all’unitarietà. Succube di una visione di guerra e di supremazia, talvolta con riscontri nichilistici, piuttosto che ad una sequenza verificabile in uno scambio dialettico quantità/qualità ottenuto per mezzo di un’accumulazione di fatti e prese di coscienza collettive conseguenti ed organicamente elaborate, o per mezzo di una originale e pacifica evoluzione della storia e della cultura. Una storia, quella europea, sempre refrattaria all’unione tra i popoli, ma troppo incline alla ricerca delle differenze, anche come strategia antica e romana (ricordiamoci sempre del divide et impera), differenze con le quali si può convivere solo quando ci si prepari a farlo e solo quando si prenda ad esempio la categoria antropologica dell’uguaglianza, anche senza porla in un ordine delle cose esclusivista.
Fa bene, quindi, Davide Rossi, a ricordarci di quali vie di fuga alle proprie crisi strutturali sia stata capace la classe dominante europea il secolo scorso. Guerre, conquiste coloniali, fascismi, hanno sempre rappresentato la risposta alla propria crisi di dominio di classe, ma anche interimperialistico. Come non apprezzare, allora, le pagine che ragionano su che cosa fu la Jugoslavia socialista, esperimento politico tanto luminoso quanto condiviso dalle genti balcaniche. Esperimento, come ricordato anche dall’autore, capace di irradiare le sue ragioni e i suoi progetti, con il Movimento dei Paesi non Allineati, verso i più remoti angoli del globo. Una realtà, quella jugoslava, di cui sono stato giovanissimo testimone, capace di costruire, a volte contradditoriamente, un nuovo tipo umano, nuove relazioni sociali e produttive, con al centro sempre l’essere umano inteso come crocevia di storie, aspirazioni e bisogni. Rimane ancor oggi, soprattutto in certe regioni dell’ex Jugoslavia, uno sfondo incancellabile di quel fulgido periodo pieno di costruttiva attesa. E vi rimane soprattutto laddove, e più segnatamente, si sente e vive ancora quella realtà di fratellanza fra i ceti popolari, quell’accettazione gioiosa di costumi sociali e religiosi vissuti sempre come arricchimento e mai come minaccia. Un’umanità, insomma, dalla quale imparare e rispetto alla quale mettersi in attento ascolto. Alla quale, credo, tutti noi dovremmo prestare attenzione e riconoscenza, riaffermandola come la vera eredità della Jugoslavia socialista.
Da piccolo collezionista di oggetti d’arte quale sono stato e talvolta sono, e in forza dei miei studi artistici, le pagine sulla miniera museale viennese sono fondamentali e direi di invito a visitare le preziosità sia artistiche che architettoniche che contraddistinguono la capitale austriaca. Vi sono custodite, infatti, opere di bellezza abbagliante e significato ineguagliato, testimoni di un’epoca di passaggio fondamentale per tutto il continente.
Per carpirne il senso dobbiamo necessariamente passare per la Secessione Viennese, allorquando diciannove artisti decidono, appunto, di secedere e ricercare una propria via espressiva e di rappresentazione del mondo che li circonda e di ciò che sentono. È il momento dell’opera d’arte totale, già sentita dal precursore Wagner, ma qui realizzata con maggiore ampiezza di vedute.
Da triestino quale sono, è interessante leggere che passeggiando lungo certe strade e vie della capitale austriaca si ha la sensazione di passeggiare a Trieste, città controversa e singolare che l’autore conosce molto bene, tuttavia senza pretendere di godere della vista e del profumo del meraviglioso Mare Adriatico. Certo la storia della mia città, e Davide lo sottolinea più volte nelle pagine dense del suo lavoro, deve molto all’Impero austro-ungarico, se non altro per essere stata concepita e creata proprio da quest’ultimo per una decisione di politica economica. E Vienna conferma la filiazione di Trieste, con i palazzi allineati del Borgo Teresiano e la molteplice, eclettica, architettura degli stessi. Se passeggiate lungo le vie del centro della capitale austriaca, ad esempio, non potete fare a meno di notare, a fianco del Museo Albertina, un grande palazzo storico con la scritta Assicurazioni Generali che richiama immediatamente al collegamento con la città adagiata sull’ultima sponda settentrionale del Mediterraneo.
Questo libro, dunque, si profila come centrale nel collegare la storia europea da quel passato denso di cambiamenti e tragedie all’Europa di oggi che si dibatte tra trasformazioni epocali di cui ancora, come una bella addormentata, non è cosciente, e nuove sfide. Un’ Europa proiettata verso un futuro nel quale sarebbe logico riprendesse in mano i propri destini, ancora stretta, nonostante manchi l’alibi della guerra fredda, tra il giogo geopolitico atlantico-americano e le nuove realtà emergenti che non stanno certamente a risolvere al posto nostro i ritardi nostri, soprattutto culturali, o ad aspettare che la bella addormentata si svegli.
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