di Sergio Mauri
Jean-Jacques Rousseau assunse posizioni più radicali e respinse l’ottimistica fiducia nel progresso, propria della maggioranza degli illuministi. Per Rousseau, infatti, la storia non rappresentava il cammino in avanti dell’umanità, ma un processo di degenerazione che aveva peggiorato la situazione dell’uomo.
Rousseau, nel Discorso sull’origine e i fondamenti della disuguaglianza fra gli uomini del 1755, individuò la causa di questa degenerazione nella formazione della proprietà, sconosciuta nello stato di natura. L’uomo civile infatti si contrappone al suo simile attraverso la proprietà alla ricerca di un vantaggio a danno degli altri. La proprietà genera la disuguaglianza mentre lo Stato è il culmine della sopraffazione, chiamando a difendere i dominanti dai dominati. Nello Stato politico l’uomo dipende continuamente dagli altri per soddisfare i bisogni che sono stati creati artificialmente con la divisione dei beni e il progresso tecnico-scientifico.
Secondo Rousseau, tuttavia, non si poteva ritornare allo stato di natura che per lui era semplicemente un parametro per rendersi conto della corruzione dello stato presente. Era allora necessario edificare uno Sato legittimo. Nel Contratto sociale del 1762 Rousseau sostiene la necessità di ripristinare attraverso un nuovo patto fondato sul consenso di tutti, l’uguaglianza iniziale negata dallo Stato di Antico regime.
Nel Contratto sociale l’individuo cede tutto se stesso al nuovo corpo sociale che esprime la propria sovranità attrvaerso la volontà generale, volta al bene di tutti, che non va confusa con la volontà di tutti che sarebbe la semplice somma degli egoismi individuali.
Rousseau allora proponeva uno Stato democratico e repubblicano, fondato sulla sovranità popolare. A differenza di Montesquieu e Locke egli era contrario alla separazione dei poteri. Era invece favorevole alla democrazia diretta ed assembleare. Fu osteggiato dai liberali, ma divenne punto di riferimento per democratici e rivoluzionari.