[Termine col quale si identifica….].
Trieste, la città sul confine mobile con l’oriente europeo, in un qualsiasi giorno di fine Novecento. Un uomo ormai adulto, di nome Giorgio, racconta di quando, sedicenne, fece una scoperta paradossale…: scoprì di non essere quello che aveva sempre creduto di essere.
Giorgio non sapeva che fare: doveva rispondergli con le buone o spaccargli la faccia. “S’ciavo” gli avevano detto; ma lui non era “s’ciavo” e non voleva nemmeno diventarlo; mai gli era passato per la testa che gli interessava di essere “jugo”. Va bene; decise di dirgli “tornatevene da dove siete venuti” in dialetto e ad alta voce, per chiudere la faccenda. I suoi compagni di corso risero, lo sfotterono per reagire alle sue parole che non davano più spazio ad altre polemiche.
Lo avevano chiamato “S’ciavo” non perché lo fosse veramente ma perché aveva fatto una figura un po’ barbina con loro e affibbiargli quel titolo infame significava denigrarlo, umiliarlo moralmente nel modo, secondo loro, più appropriato. Dopotutto si chiamava Carli e questo cognome non era sicuramente “s’ciavo”, pensava con fermezza. Aveva 16 ani ma non aveva ancora ricevuto il sacramento della Cresima; i suoi familiari lo spingevano a farlo, così che non potesse incappare in impedimenti al momento del matrimonio. Se non l’avesse fatta ora, quest’anno, l’avrebbe comunque dovuta fare prima di sposarsi, non c’era verso: le regole di Santa Romana Chiesa, in questo campo, sono ferree. Doveva passare in Chiesa nel pomeriggio, per verificare la possibilità di farlo entro la primavera e, visto che lì era stato battezzato ed aveva ricevuto la Comunione, era meglio completare quella filiera di doveri nello stesso posto, dove già di lui c’era una piccola storia. Anche suo padre era stato battezzato nella stessa Chiesa. Sembrava una mania di famiglia…
La Chiesa si trovava al centro di una grande piazza, circondata dalle case ai quattro lati. Intorno alla Chiesa le strade che delimitavano il confine con le case, erano una specie di cornice alla Chiesa ed alla piazza che la ospitava. La costruzione ricordava il classico disegno di una chiesa cristiana d’altri tempi; i muri erano dipinti di un colore giallo-ocra che, finalmente, era diventato ben vivo dopo la ristrutturazione avvenuta un paio d’anni prima. Era piuttosto imponente e doveva essere importante nel suo ruolo e nelle sue funzioni parrocchiali. Entrò, percorse la navata di destra in direzione dell’abside alla ricerca del parroco o, almeno, di un suo segretario. Nessuno. Dalla parte opposta due vecchiette stavano pregando in silenzio a capo chino l’una, guardando l’altare l’altra. Il silenzio regnava; solo i suoi passi ne rompevano la continuità. Decise di uscire, andò verso il retro esterno della Chiesa per suonare alla porta dell’abitazione del parroco. Gli venne ad aprire lui stesso. Era fortunato; espose al prete il suo problema. Egli lo ascoltò con grande disponibilità, lo fece entrare nell’atrio della sua abitazione. Lo congedò invitandolo ad aspettare fuori per verificare, velocemente ed insieme, la documentazione in loro possesso e fissare un’appuntamento per il catechismo.
Giorgio uscì, contento per aver imboccato la strada giusta; probabilmente avrebbe risolto tutto molto velocemente e senza problemi. Poco dopo il prete lo seguì e gli fece strada verso il suo ufficio all’interno del tempio. Entrarono nel suo ufficio; scarno, pieno di carte, documenti, raccoglitori. Il prete iniziò a scartabellare alla ricerca di quel preciso fascicolo che poteva riguardare il suo giovane interlocutore. Mentre il tempo passava costante ma privo di novità, Giorgio si guardava intorno, nell’intento di scoprire qualcosa che potesse interessarlo. Notò quella grande croce dietro la sedia del prete, due quadri naif alla sua destra, quegli scaffali così pieni di cartacce, un grande disordine insomma. E quella scrivania di legno marrone, sicuramente senza alcun pregio, dove quel fermacarte a testa di cavallo faceva ricordare quelle vecchie scrivanie dei medici condotti sempre frequentate da pezzi pacchiani e di scarso valore economico ed artistico. Improvvisamente il parroco alzò gli occhi dal suo archivio e con fare soddisfatto estrasse una scheda rosa con all’interno alcuni fogli manoscritti.
“Ecco” – disse – “ho trovato i dati di cui abbiamo bisogno”.
“Finalmente” – disse sottovoce Giorgio, vergognandosi di esser sentito dall’uomo di fede, verso cui non poteva negare di nutrire una certa soggezione.
“Ecco, allora… tu, Giorgio Carli, sei stato battezzato in questa Chiesa… hai pure fatto qui la Comunione… si, mi ricordo, si… e pure tuo padre e parecchi tuoi parenti son stati battezzati qui” – biascicò il parroco con gli occhiali che gli stavano scivolando verso la punta del naso.
“Si, si, lo so…” – rispose un poco irritato Giorgio.
“Vediamo…” – continuò il prete – “Qui c’è il nome di tuo padre, Francesco Carli, già Kralj, nato a Trieste il… dunque siete di origine slovena…”
Come? Di origine slovena? Chi noi? Ma come…? Questa proprio non me l’aspettavo; non ne sapevo nulla; per lo meno nessuno me l’aveva spiegato!
“Sloveni in che senso?” – Chiese Giorgio con l’ingenuità dei suoi 16 anni.
“Non c’è nessun senso particolare nell’essere sloveni” – rispose fermo il prete.
“E’ lo stesso senso che ha l’essere italiani” – puntualizzò convinto. E aggiunse: “Kralj in sloveno significa re, quindi con il fascismo e l’italianizzazione forzata dei cognomi voi, come altre famiglie, siete diventati Carli: non c’è nulla di strano in tutto questo, è la realtà della vita che è manifestazione della volontà di Dio”
Non poteva credere alle sue orecchie: era sloveno, anzi slavo, anzi “s’ciavo” come egli sentiva usualmente chiamare “quella gente”. Non gli sembrava che qualcuno gli avesse mai confessato questo segreto, forse non ci aveva mai fatto caso. Ma lui non si sentiva diverso dagli altri, non si sentiva più “s’ciavo” di qualsiasi altra persona che non lo fosse stato. Come poteva essere allora? Doveva essere più trasandato, ignorante, forse anche sporco (e cos’altro ancora non lo sapeva se doveva prestare attenzione alla propria esperienza personale) nonché contadinesco di altri che “s’ciavi” non erano? Lui, non solo non si sentiva così ma nemmeno era così!
Avrebbe assolutamente dovuto parlarne con suo padre, chiedergli il perché di tale occultamento, la ragione della sua ignoranza durata fino a 16 anni.
“Allora” – fece il prete – “vieni il martedì alle 18.30 qui in Sacrestia… qui teniamo le nostre lezioni di Catechismo”. E salutò sbrigativamente Giorgio, impalato al centro dell’ufficetto. Voleva proprio buttarlo fuori dalla porta. E così fu. Giorgio si ritrovò in istrada, solo con i suoi pensieri e le sue domande.
Dunque era slavo; se ne vergognava un po’; com’è che nella sua città, il clima culturale era così avverso ai popoli slavi? Sarebbe stato un marchio indelebile da occultare severamente e da tentare di togliere con un impegno quotidiano a migliorarsi, anzi, ad assomigliare sempre di più agli “italiani veri” che avrebbe visto o incontrato?
Da quel giorno cominciò a porre quanti più quesiti potesse ai suoi, agli amici, ai conoscenti; si informò, lesse il possibile sull’argomento, fece delle approfondite ricerche. Qual’era l’argomento? Perché tanto livore tra italiani e slavi. Lui voleva capire questo. Da questo argomento ne discendevano molti altri: per esempio, se aveva qualche ragione per vergognarsi di essere slavo.
Da allora ricevette molte risposte alle sue domande. Venne a sapere della competizione nazionale dei due popoli già dalla fine dell’Ottocento: ognuno dei due vedeva questa città come proprio simbolo di redenzione ed agiva politicamente di conseguenza.
Capì chiaramente che la comunità italiana era economicamente, socialmente e culturalmente più forte, avendo alle spalle una nazione di maggior peso rispetto agli slavi. E comprese a fondo il ruolo dello Stato fascista nel rafforzamento di una politica iper-nazionalista nella sua città, in modo da chiudere definitivamente, con la forza, ogni disputa su Trieste da parte delle due (non uniche) comunità presenti. Ripercorse la storia di una città dove, comunque, c’era stata una differenza tra “l’imperialismo straccione” italiano e “l’arretratezza asiatica” del mondo slavo; e si vedeva ancor oggi. Capì che l’italianità era per molti la copertura ad interessi ben più materiali; anche da parte slovena questo era vero, sebbene i giornali e le persone comuni appartenenti alla comunità slovena, al contrario della “maggioranza italiana”, non parlassero di rivendicazioni in questo senso. Insomma, il nazionalismo diventava una maschera dietro la quale si celavano i redditi ed il benessere materiale di chi lo invocava. Scoprì che almeno il 40% della popolazione della sua città era totalmente o parzialmente di origini slave. Scoprì che tra gli artisti ed i letterati della sua città c’erano parecchie persone di origine slava (Bartol, Spacal, Cej, Cernigoi, Cucek, Faganel, Gombac, Hlavaty, Mihelic, Palcic, Zajec, ecc., per citare solo i suoi concittadini del passato e del presente); allora non era vero che essi non fossero capaci di espressione intellettuale o artistica, come insinuava il nazionalismo fascista italiano! E che dire del goriziano Music? Anche lui un grande genio della pittura, sloveno! Si rese conto che la polemica sulle foibe era, in realtà, propaganda politica; chi parlava di foibe, infatti, non accennava minimamente al Ventennio fascista o all’occupazione nazista di queste terre. Non c’era obiettività dunque; ma come si poteva spiegare la violenza antifascista se non con la spietatezza della politica razziale e militare del Fascismo? Chi odiava gli slavi era un aguzzino, dunque: solo un aguzzino può odiare la sua vittima, nessun altro! Una persona può fare del male ad un’altra solo se è convinto che questa sia colpevole per natura, a prescindere da qualsiasi riscontro oggettivo. Solo così quella persona, una persona fanatica, può superare i propri limiti etici (ma esistono ancora? forse sono solo un limite psicologico virtuale che ci piace tenere spesso a mente ma senz’impegno) e diventare un aguzzino. Solo con delle atroci giustificazioni si può compiere quel salto di qualità all’indietro; solo se l’ignoranza delle risposte facili può obnubilare la mente di un uomo. Capì che l’odio nelle parole o nel disprezzo di uno sguardo veniva mantenuto per illudersi di avere ancora una superiorità da dominatori nei confronti di quelle genti.
Ma i tempi erano assai cambiati; la cruda violenza di qualche decennio fa si era stemperata in livore culturale. Gli affari e il denaro che li permettevano, avevano dunque corrotto quel mondo così monolitico e diviso in blocchi etnici, fino a farlo diventare luogo di competizione dove guadagnarsi la posizione migliore senza guardare in faccia nessuno.
La sua vita avrebbe potuto continuare senza questa “presa di coscienza”. Invece, prese una via diversa, soprattutto nella sua testa. Egli, dopo quell’esperienza, si convinse che solo provando direttamente le cose si può capire il funzionamento del mondo e dei rapporti che gli uomini, reciprocamente durante la loro esistenza, vi instaurano. Solo in quel modo, ne era convinto, si sarebbero superate le divisioni e gli odi. Una scuola che insegnasse a superare i pregiudizi doveva essere capace di far provare di persona ai suoi alunni la distruttività che essi sono capaci di causare. Farla detestare sarebbe stato l’unico antidoto all’odio. Da oggi in poi, avrebbe mai più osato dar dei giudizi su qualcuno in base a dei pregiudizi etnici?
Giorgio era davanti quel portone. Suonò il campanello.
L’incontro con quell’uomo, anziano intellettuale di origine slovena, era stato organizzato dal prete da cui aveva avuto la rivelazione delle sue origini. Avrebbe così potuto porre delle domande ed avere conseguentemente delle risposte ai suoi interrogativi ed alle sue ansie. Era un po’ nervoso. Era normale, visto che stava per incontrarsi con una persona, per quanto affidabile e capace, che doveva dargli delle spiegazioni sulla sua identità.
L’uomo, dal proprio appartamento, aprì il portone invitando Giorgio, attraverso il citofono, a salire.
I convenevoli furono brevi e tirchi, come di solito solo gli anziani sanno fare. Il signor S. fece accomodare Giorgio nel salone, spiegandogli che aveva già avuto dal parroco le necessarie precisazioni sul motivo della visita. Precisò anche che erano anni che non riceveva alcuna persona per motivi di questo tipo.
“Sono rimasto assai sorpreso nell’aver scoperto le mie origini” – disse il giovane.
“E’ rimasto sorpreso perché forse immaginava che la vita fosse tutta lineare, senza sorprese e che la realtà del pari fosse un tutt’uno con le apparenze?” – fece notare S.
Giorgio si sentì leggermente interdetto dalle parole del vecchio; ma egli aveva ragione. Aveva colto nel segno.
“Beh, forse un po’ si. Uno non è abituato a porsi certi interrogativi, ad immaginarsi la vita, la propria soprattutto, con un po’ di fantasia” – abbozzò Giorgio.
“Non si preoccupi. Quella delle origini è una questione che tocca milioni di uomini nel mondo. E, tanto per rimanere a Trieste, decine di migliaia di persone che per motivi storici hanno subito una oppressione ideologica e politica quando non addirittura sociale attraverso la negazione della loro identità”
“Come mai in questa città è così complicato essere orgogliosi di essere slavi?” – Azzardò Giorgio. Tanto valeva affrontare subito quello che ora sentiva come il suo problema.
“Questa è una domanda complessa e le risposte andrebbero modulate con attenta precisione. In queste terre c’è stata una spietata lotta nazionale per il loro controllo politico. L’Italia ha vinto questa lotta e di conseguenza ha parimenti vinto sul piano del controllo ideologico. Anche i conflitti di classe hanno avuto la sfortunata fatalità di tingersi di scontro nazionale o peggio etnico, smorzandone così le potenzialità.
La sconfitta è stata interiorizzata dagli slavi che si sono sentiti oppressi dai nuovi conquistatori – fascisti peraltro – e si sono identificati in pieno con la mentalità della minoranza etnica. Con tutto ciò che ne consegue. Queste differenze che si rifanno a processi distanti ed atavici (arretratezza del mondo contadino slavo rispetto a quello latino) hanno continuato nel tempo, attenuandosi solo forse in questi ultimi anni, dopo la caduta del Muro di Berlino con la conseguente frana di ideologie e principi opposti e complementari.” –
A questa risposta del vecchio, Giorgio si sentì un po’ più sollevato nella coscienza. Si trattava del sollievo cagionato dallo spiraglio che la psiche individuava nel capire che poteva darsi delle spiegazioni.
A questo punto Giorgio partì più decisamente: “Chi sono gli sloveni di Trieste? Facendole questa domanda mi rendo conto di dover distinguere fra sloveni, croati e serbi e fra questi gruppi etnici dal lungo insediamento storico a Trieste e i croati e serbi arrivati in città negli ultimi decenni. E, soprattutto negli ultimi 10/15 anni sull’onda della disgregazione e delle guerre nei Balcani”.
Il vecchio pensò accigliato prima di rispondere.
“Ce ne sono di tutti i tipi, ovviamente. Questa domanda, così formulata è qualunquista. Ma penso di aver capito a che cosa allude, penso di capire il senso della sua domanda. Ebbene, io credo che potremmo definire così gli sloveni e tutti gli slavi di questa città accomunati dal destino storico dell’esilio, volontario (gli ultimi arrivati) o meno (le comunità radicate da secoli) che sia: essi sono cittadini del mondo. Cittadini speciali e particolari che vivono lontani, da quella che potremmo definire una comunità tradizionale con la propria cultura e segni distintivi. Essi hanno un’affinità elettiva cogli ebrei, sono sovra-nazionali come loro e come loro faticano il doppio per resistere ed integrarsi in tutti i settori della vita sociale” – Gli occhi di S. si illuminarono di una luce speciale. Le sue parole fluttuavano con soave leggerezza nell’aria di quella stanza. Le sue spiegazioni dovevano risultare originali ed esaustive a Giorgio che lo guardava con partecipazione intensa.
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