Una rassegna stampa sulle questioni politico-sociali della Slovenia del 2002-2005-2006 dai siti: meltingpot.org e osservatoriobalcani.org . Sono articoli di grande interesse storiografico, politico, giuridico e sociale che non riguardano solamente la Repubblica di Slovenia, ma anche tutta l’ex-Jugoslavia. Buona lettura.
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Diritti umani: i cancellati della Slovenia sono i cancellati d’Europa
Era il 26 febbraio del 1992 quando nel giro di poche ore più di 18 mila persone persero i loro diritti fondamentali. A fine novembre i “cancellati” della Slovenia hanno parlato al Parlamento Europeo.
I 18 mila in questione erano cittadini jugoslavi residenti in Slovenia che non regolarono il proprio status di cittadinanza entro i sei mesi contemplati dalla legge dopo l’indipendenza.
Non solo i 18 mila furono esclusi dalla categoria di nuovi cittadini, ma non furono riconosciuti neanche come cittadini stranieri con residenza in Slovenia. I “cancellati”, che erano solo stranieri jugoslavi, oggi ancora vivono senza diritti civili, sociali e politici.
La Corte Costituzionale ha dichiarato più volte l’incostituzionalità della “cancellazione”, ma lo stato sloveno si rifiuta di reintegrare i diritti a chi, da cittadino, quel giorno del 1992 si è trasformato in straniero illegale.Un gran numero di loro si è ritrovato apolide, molti sono stati rinchiusi nei cpt ed espulsi, migliaia sono stati costretti a lasciare il paese.
Per questo, dal 27 al 29 novembre una carovana è partita da Lubiana con destinazione Bruxelles, per fare iscrivere la questione dei cancellati fra le priorità dell’agenda europea.
Per ribadire che i cittadini cancellati della Slovenia sono anche cittadini cancellati d’Europa.
15.12.2006 meltingpot.org
La vergogna di Ambrus
31.10.2006 scrive Franco Juri osservatoriobalcani.org
Una famiglia di rom costretta alla macchia per evitare il linciaggio e poi ”deportata” in un campo d’accoglienza per stranieri. E’ anche questo la civile Slovenia. Preoccupante incremento della xenofobia
Bambini rom – Giuliano Matteucci
Come in un film sull’Alabama degli anni ’60 da vari giorni ormai 25 membri di una famiglia rom, insediata da decenni a Dečja vas – presso il villaggio di Ambrus nel comune di Ivančna Gorica nella regione sudorientale slovena della Dolenjska – si nascondeva terrorizzata nel bosco per sfuggire al linciaggio minacciato dagli abitanti del paese. Nel gruppo c’erano anche donne, molti bambini e persino una partoriente.
Il ministero degli Interni ha ordinato alla polizia di “accompagnare” la numerosa famiglia nel campo di permanenza per stranieri di Postumia. In pratica il governo ha deciso di interrompere la pericolosa escalation con una piccola deportazione che per il momento dovrebbe rassicurare gli abitanti sloveni di Ambrus e allentare la tensione nel villaggio dove già da anni sloveni locali e rom, che nella Dolenjska sono particolarmente numerosi, si guardano in cagnesco e dove lo stato o è assente o irrompe – con fare risoluto e comunque sempre discriminatorio – solo quando la situazione si fa tragica.
I rom avevano dovuto lasciare in fretta il loro insediamento dopo che la situazione era precipitata a causa di alcuni scontri tra la popolazione locale slovena ed alcuni individui dell’insediamento seminomade. A farne le spese era stato un paesano di 57 anni, Jože Šinkovec, colpito alla testa in una collutazione e attualmente in coma. A sferrare il micidiale colpo non era stato però un rom, bensì uno sloveno, R.Č., un personaggio che in passato aveva avuto guai con la giustizia e che la comunità rom aveva accolto nel proprio insediamento 9 mesi fa.
Ciò è bastato per far scattare la scintilla di una xenofobia che covava da molto tempo e che si alimentava anche di episodi generati dalla latitanza di chi a livello nazionale e locale avrebbe dovuto risolvere, senza mai farlo, problemi apparentemente futili ma molto concreti; come quello delle infrastrutture che i rom richiedevano per le loro case, baracche e rulotte e che la comunità locale negava richiamandosi a limiti di carattere ecologico dell’area occupata, a loro detta abusivamente, dalla numerosa famiglia Strojan.
Il capostipite della famiglia, un certo Brajdič, era natio di queste zone e dopo la guerra, dove aveva combattuto con i partigiani di Tito, vi era tornato mettendo su una famiglia con 12 figli e costruendo una casa vera e propria ai limiti del bosco, tra Ambrus e il villaggio di Zagradec. Cosa che non è mai piaciuta agli abitanti del posto. Proprio qui due anni fa avvenne anche un gravissimo quanto misterioso fatto di violenza razzista: una granata fu lanciata contro una baracca rom da ignoti uccidendo una madre e la sua piccola figlia.
Le faide locali erano poi continuate creando una situazione insostenibile sfociata infine nella violenza di cui vittima è stato lo sloveno attualmente in coma. “Non siamo stati noi”, si difendono gli Strojan, messi sotto accusa dalla comunità locale secondo la quale sarebbero rei di dare asilo a R.Č. Per evitare il linciaggio e la vendetta dei paesani, armati di fucili da caccia, gli Strojan hanno abbandonato le proprie case e si sono rifugiati nel bosco circostante. Da lì, dopo vari giorni di tensione e paura, la polizia li ha scortati al campo di permanenza quasi dismesso di Postumia, dove – stando alle assicurazioni del ministro degli Interni Dragutin Mate – dovrebbero rimanere solo un paio di settimane, in attesa che si trovi una soluzione alternativa a quella osteggiata dalla popolazione locale di Ambrus.
Il razzismo anti-rom sta diventando tra gli sloveni particolarmente acceso negli ultimi anni e c’è chi indica proprio nella politica del governo Janša , fortemente discriminatoria e volutamente latitante in fatto di legislazione specifica, una delle maggiori cause dell’odio montante e della mancata soluzione dei problemi legati agli insediamenti nomadi.
Non a caso Janez Janša puntò, nella sua campagna elettorale, proprio sui sentimenti anti-rom particolarmente forti nella Dolenjska, da dove lo stesso premier arriva. Guidò a Lubiana, davanti alla sede del governo, anche una manifestazione di protesta contro le “concessioni” ai rom dell’allora governo liberaldemocratico di Anton Rop e nella sua natia Grosuplje sostenne con forza il veto contro ogni diritto di rappresentanza dei rom locali negli organi comunali, come auspicato dalla legislazione nazionale.
Anche il sindaco di Ambrus è membro dell’SDS, il partito di governo, ma in paese è stato fischiato perché considerato troppo “morbido” con i nomadi. Ecco quindi farsi strada la xenofobia più estrema, quello del Partito nazionale sloveno di Zmago Jelinčič, che per i “cigani” (è questo il solo termine, in Slovenia spregiativo, che usa il parlamentare ultranazionalista) prospetta soluzioni più rapide e meno aperte al dialogo.
Un anno fa il governo, per mano del ministro dell’Educazione Milan Zver, risolse “il problema” degli alunni rom nelle scuole slovene della Dolenjska, la cui presenza era osteggiata dai genitori “bianchi” creando un sistema educativo parallelo e segregazionista. Del tema scrivemmo anche su Osservatorio.
Molto preoccupate per lo sviluppo della situazione sono tutte le maggiori organizzazioni rom della Slovenia. Zoran Grm, presidente dell’associazione dei rom della Dolenjska e consigliere comunale di Novo Mesto ha annunciato una protesta presso le istituzioni comunitarie europee.
Costernato per gli sviluppi di Ambrus si dice pure l’ombudsman Matjaž Hanžek che definisce la deportazione cautelativa a Postumia, sotto la minaccia di un linciaggio, un pericoloso precedente e un collasso dello stato di diritto.
I cancellati: discriminazione continua
21.12.2005 Da Capodistria, scrive Franco Juri osservatoriobalcani.org
18 mila persone alle quali sono stati tolti, nel 1992, i diritti di cittadinanza. Qualcuno si è spinto sino a definirla ‘pulizia etnica amministrativa’. Ed ora il governo sloveno pensa ad una legge costituzionale che di fatto neutralizzerebbe la possibilità di arrivare ad una soluzione non discriminatoria nei confronti di questi cittadini fantasma
Cancellati, una manifestazione
Mentre Amnesty International e la Commissione lavoro e cultura dell’ONU lanciano un appello al governo sloveno e all’Unione Europea a favore dei diritti dei “cancellati” e del rispetto delle sentenze emesse in merito dalla Corte costituzionale slovena, Lubiana annuncia a sua volta una legge costituzionale che – se approvata – le neutralizzerà chiudendo di fatto la porta ad una soluzione non discriminatoria per le oltre 18 mila vittime della cancellazione dai registri dei residenti stabili avvenuta arbitrariamente e a loro insaputa nel 1992.
L’ annuncio è stato fatto dal governo la settimana scorsa ma il contenuto della legge, già inoltrata in parlamento, rimane per ora riservato. La legge sarà costituzionale e quindi per essere approvata avrà bisogno della maggioranza qualificata, pari a 60 voti sui 90 che compongono la camera di stato. Per il governo è una sfida che vale comunque la candela, visto che solamente con una legge costituzionale potranno essere evitati e quindi ridefiniti gli obblighi legali derivanti da due sentenze della Corte costituzionale che nel 1999 e nel 2003 avevano avallato il diritto di tutti i cancellati a veder regolarizzato il loro status con effetto retroattivo.
Il governo Janša conta su una maggioranza parlamentare di 49 seggi, ma il Partito nazionale sloveno (SNS) dell’ ultranazionalista Zmago Jelinčič, formalmente all’opposizione ma di fatto sostenitore del governo, e che dispone di 6 seggi, ha già annunciato il suo pieno appoggio alla legge. I mancanti 5 voti verranno cercati tra le file delle due minoranze (italiana e ungherese) nonchè tra i “pragmatici” dell’opposizione.
Il leader del Partito socialdemocratico (SD) Borut Pahor ha lasciato intendere a più riprese di essere disponibile ad un dialogo con il governo anche sul tema dei cancellati. Fu Pahor infatti tra i primi a sostenere pubblicamente alcune delle tesi discriminatorie governative e la sua tentazione di allearsi al leader della destra è molto forte. Janša conta quindi nell’aiuto del leader socialdemocratico, attualmente eurodeputato, per trovare qualche voto tra le file del suo gruppo parlamentare dove però finora ha prevalso un atteggiamento solidale con i cancellati.
Se la maggiornaza qualificata non fosse raggiungibile la legge semplicemente non si farebbe mentre i cancellati rimarrebbero comunque alla mercé della burocrazia e delle polizia.
Per quanto trapelato fino ad ora si sa che la legge costituzionale minimalizza drasticamente i doveri dell’amministrazione nei confronti dei cancellati, riconoscendo solo degli »errori burocratici« individuali e quindi un generico diritto di ogni singolo interessato ad inoltrare domanda per il riconoscimento del proprio status. Caso per caso quindi, verificato dagli organi competenti del Ministero degli interni, ma con dei limiti decisivi. La regolarizzazione viene riconosciuta solo a coloro che già inoltrarono, dopo l’indipendenza, richiesta formale per il diritto di residenza ma che per vari motivi “formali” non ottennero alcuna risposta. Da questo diritto vengono esclusi automaticamente tutti coloro che furono impiegati o operarono nel quadro dell’ esercito federale jugoslavo e quanti, per diversi motivi, primo fra tutti la totale mancanza di informazione, non avanzarono richiesta formale per il mantenimento della residenza.
Il risarcimento a chi ottenesse i diritti tolti nel 1992 viene limitato a 200 mila talleri (8 mila euro). In pratica la nuova legge rappresenterebbe un annullamento in pieno delle decisioni dei giudici costituzionali che avevano constatato l’illegalità e l’arbitrio dell’atto con cui più di 18 mila jugoslavi residenti o persone non nate in Slovenia vennero cancellati dai registri di residenza perdendo ogni diritto sociale.
In effetti si trattò di una cancellazione di massa discriminatoria, avvenuta da un giorno all’altro in gran segreto, che alcuni definiscono persino come “pulizia etnica amministrativa”. La risposta del governo è ora burocratica, individuale e altrettanto discriminatoria.
In merito alla questione Amnesty International ha di recente informato la commissione per le questioni sociali, lavorative e culturali dell’ONU, che a sua volta ha fatto appello ad una rapida e giusta soluzione a favore dei cancellati. Una lettera in tal senso è stata inviata da AI anche al presidente della Commissione Europea Jose Barroso e al commissario europeo Franco Frattini.
Ma come ormai di prassi anche questa volta da Bruxelles non ci sono state reazioni. Il governo Janša perciò non si scompone, convinto che dal versante europeo- tantomeno da quello conservatore – sul tema dei cancellati non ci saranno obiezioni. Probabilmente ha ragione.
Slovenia: a rischio il diritto d’asilo
15.12.2005 scrive Franco Juriosservatoriobalcani.org
Sarà praticamente impossibile ottenere asilo in Slovenia, e molto verrà lasciato alla discrezionalità della polizia di frontiera. In Slovenia si sta andando verso una riforma in senso del tutto restrittivo della legge sul diritto d’asilo. Associazionismo ed Alto commissariato per i rifugiati protestano, l’UE sta zitta
Una rifugiata d’origine afghana – UNHCR
Il governo sloveno ha approntato alcuni giorni fa una serie di modifiche alla legge sul diritto di asilo varata nel 1999 e già modificata – ma allora non in senso restrittivo – nel 2003. In Slovenia non esiste un allarme rifugiati. Il diritto di asilo, in base alla legge in vigore, è stato concesso (secondo i dati disponibili alla fine del 2004) solo a 117 persone. Anche nel 2005 i casi di riconoscimento di tale diritto si sono mantenuti nell’ordine di alcune decine.
Nonostante cio’ la nuova proposta di legge dovrebbe essere discussa e confermata in sede parlamentare entro il prossimo gennaio. Alcune organizzazioni per i diritti umani, prime fra tutte Amnesty International, l’Istituto per la pace , l’Ufficio dei gesuiti per l’aiuto ai rifugiati, la Fondazione Gea 2000, il Racio social, le associazioni Metafir e Mozaik, la Slovenska filantropija ed il Centro legale-informativo delle ONG , ma anche lo stesso ombudsman sloveno Matjaž Hanžek, lanciano però l’allarme.
Il governo, più precisamente il Ministero degli interni, cui è delegata l’attuazione della legge, propone delle modifiche restrittive tese a limitare drasticamente i diritti dei rifugiati e dei richiedenti l’asilo politico. Le modifiche contestate dalle organizzazioni citate introducono la piena discrezione della polizia nel valutare, al confine, se un rifugiato abbia o no il diritto di richiedere asilo e di avviare le pratiche previste.
Viene così introdotto un filtro, gestito dalla polizia, che limiterà l’accesso dei richiedenti alla procedura vera e propria presso gli organi giudiziari attualmente gli unici qualificati a valutare i singoli casi. Tra le modifiche restrittive vi sono pure la soppressione dell’assistenza legale gratuita garantita ai rifugiati nella fase iniziale della procedura d’asilo. Vengono altresì soppressi il diritto al lavoro nel primo anno dopo l’ inoltramento della richiesta ufficiale di asilo e quello all’ assistenza sociale, seppur minima, garantita dalla legge in vigore.
Si tratta in pratica di misure che chiudono la porta o inibiscono drasticamente la richiesta di asilo in Slovenia in quanto oltre a limitare con piena facoltà della polizia l’avvio delle pratiche necessarie, rendono l’esitenza dei rifugiati pressocché impossibile. Tali modifiche sono state recentemente criticate pure dal direttore dell’ ufficio regionale dell’ Alto commissariato dell’ ONU per i rifugiati (UNHCR) ,con sede a Budapest, Lloyd Dakin che a Lubiana ha trattato il tema con il ministro degli interni Dragutin Mate e l’ ombudsman Matjaž Hanžek. Secondo Lloyd la legge attualmente in vigore è valida e non ha bisogno di modifiche, tantomeno se sono restrittive. A detta del rappresentante dell’ UNHCR andrebbe piuttosto apllicata con maggior coerenza ed efficacia l’ attuale legislazione.
Il governo sloveno però respinge le critiche e spiega la proposta di modifiche con ragioni contingenti che sarebbero altamente condivise in sede europea. Prime fra tutte la lotta al terrorismo e la sicurezza. Secondo Mate è necessario un sistema più agile ed efficace che nella gestione del diritto di asilo ne eviti usi impropri da parte dei richiedenti. La polizia – secondo il ministro – attuerà solo in armonia con gli altri organi competenti. Il governo sloveno si richiama alle direttive comunitarie che indicherebbero in questo campo degli standard minimi, tra l’altro già criticati dall’Alto commissariato ONU. L’ interpretazione slovena viene però confutata sia da Dakin che dall’ombudsman Hanžek che vedono nella mossa del governo un nuovo pericoloso precedente che favorirà una corsa al ribasso nei diritti ai rifugiati, anche di quelli ora garantiti dagli auspicati »standard minimi« europei.
Il governo di centrodestra guidato da Janez Janša non sembra preoccupato per le critiche delle organizzazioni per i diritti umani. Nell’ Unione europea, secondo la maggioranza politica di Lubiana, spira un vento favorevole alla limitazione dei diritti dei rifugiati. Nè la Commissione europea, nè i governi dell’UE – alcuni dibattiti in sede parlamentare europea sono l’eccezione che conferma la regola – hanno mosso fino ad ora un dito o speso qualche parola a favore del diritto di asilo e il silenzio comunitario, già così imbarazzante sul caso dei »cancellati« in Slovenia, sembra dover continuare anche nel caso delle modifiche di legge proposte per limitare il diritto di asilo. La Slovenia si sente più che mai delegata a tutelare l’inviolabilità del confine di Schengen con uno zelo che sembra essere supportato decisamente dal resto dell’UE.
Così le organizzazioni per i diritti civili, da Amnesty International all’UNHCR, si ritrovano quanto mai sole nell’opera di sensibilizzazione e nel tentativo di arginare l’involuzione dell’attuale legislazione sul diritto di asilo. Sotto pressione è pure l’ ombudsman sloveno Matjaž Hanžek, accusato dalla maggioranza e dall’estrema destra razzista del Partito Nazionale Sloveno di »politicizzare« la propria funzione a favore dei cancellati dei Rom e dei rifugiati. Dai banchi della maggioranza parlamentare volano all’ indirizzo di Hanžek pesanti accuse e richieste di dimissioni.
Unica nota positiva in questa dilagante atmosfera limitativa è la sentenza del Tribunale amministrativo di Lubiana che ha invalidato l’ordine di espulsione emesso dal ministero degli interni nei confronti del »cancellato« Ali Berisha e della sua famiglia, di etnia rom-ashkali, originaria del Kossovo dove questa minoranza, nonostante sia di lingua albanese, è fortemente discriminata. Berisha ha vissuto per molti anni in Slovenia e per un certo periodo anche in Germania. Il suo caso è stato internazionalizzato di recente da Amnesty International e la giustizia slovena ha reagito annullando l’ordine di espulsione. Ora Berisha spera in un riconoscimento del suo diritto di residente. Ma la vicenda dei cancellati rimane ben lungi dall’ essere risolta. Alle sollecitazioni di Amnesty e della commissione lavoro e cultura dell’ ONU la Commissione europea risponde tacendo mentre il governo sloveno annuncia una legge costituzionale sui cancellati, naturalmente piu’ restrittiva delle due sentenze con cui la Corte costituzionale slovena ha dato ragione alle vittime della cancellazione, che persero ogni diritto di residenza nel 1992. Infatti non e’ difficile intravedere nel livello costituzionale della proposta governativa uno strumento di neutralizzazione delle succitante sentenze.
Cancellati in Slovenia: una questione europea
28.11.2005 osservatoriobalcani.org
Un’analisi puntuale sulla situazione dei ‘cancellati’ in Slovenia. Dopo l’indipendenza della Slovenia molti sloveni persero la cittadinanza. La loro colpa? Non essere etnicamente omogenei alla maggioranza nel Paese. Riceviamo e volentieri pubblichiamo
A cura di: Civilna iniciativa izbrisanih aktivistov – Koper, Ptuj, Ljubljana
Karaula MiR – MigrazioniResistenze – Friuli, Roma, Slovenija
Društvo Dostje! – Ljubljana
La Jugoslavia socialista: tre livelli di “cittadinanza”
Nella Repubblica Federativa Socialista Jugoslava, lo status di cittadino si articolava su tre livelli.
La cittadinanza Jugoslava era garantita a chiunque nascesse da genitori Jugoslavi. Grazie a essa si accedeva, in linea di principio, a tutti i diritti civili e politici.
Vi era poi un’ulteriore istituzione, la “cittadinanza di una repubblica”, in base alla quale le persone venivano formalmente iscritte nel Registro dei cittadini di una delle sei repubbliche (Slovenia, Serbia, Montenegro, Croazia, Macedonia, Bosnia-Herzegovina) che hanno costituito, fino al 1991, lo stato federativo Jugoslavo (nel biennio 1991 – 1992 la maggioranza di queste repubbliche sono diventate stati indipendenti).
“L’istituzione legale chiamata “cittadinanza di una repubblica” era sconosciuta alla gente comune. Mateuž Krivic, che è stato uno dei giudici della Corte Costituzionale slovena, ha più volte dichiarato ufficialmente che nella Repubblica Federativa Jugoslava tale istituzione era del tutto ignota perfino a numerosi avvocati”. [Zorn, p. 93]
Moltissime persone erano completamente all’oscuro di quale fosse la loro effettiva classificazione burocratica in quanto “cittadini di una repubblica”. Tale classificazione era invece registrata negli archivi di polizia, dove veniva integrata da un’ulteriore informazione relativa alla cosiddetta “identità etnica”.
Si incontrava infine un terzo livello, determinante sotto il profilo dei diritti civili, ma abbastanza sorprendente per chi non sia familiare con il contesto federativo, multi-nazionale e multi-culturale della Repubblica Jugoslava: la cosiddetta “residenza permanente” (stalno prebivališče).
La “residenza permanente” era la chiave che consentiva di fruire della quasi totalità dei diritti civili: casa, lavoro, istruzione, assistenza sanitaria… Solo attraverso di essa i cittadini jugoslavi diventavano “cittadini” nel pieno senso del termine, secondo un’accezione di “cittadinanza” funzionale e relazionale e non “etnica”, che si riferisce alla possibilità di vedersi effettivamente garantire i diritti civili e il rispetto dei diritti umani.
In base alla “residenza permanente”, e non all’iscrizione nel Registro dei cittadini di una Repubblica, quanti erano in possesso della cittadinanza jugoslava potevano esercitare il diritto di voto nei referendum e alle elezioni amministrative.
La “residenza permanente” poteva essere concessa anche agli stranieri, estendendo loro i diritti civili (escluso il diritto di voto) dei cittadini della Repubblica Federativa Jugoslava.
Tra due fuochi
Il 25 giugno 1991 la Slovenia proclama la propria indipendenza dalla Repubblica Federativa Socialista Jugoslava. In quel momento, sul suo territorio risiedono stabilmente oltre 200.000 persone (il 10% della popolazione) che non risultano iscritte nel Registro dei cittadini della Repubblica Slovena.
Fin dal 6 dicembre 1990 (quando fu indetto il plebiscito destinato a sancire, il 23 dicembre dello stesso anno, l’indipendenza del paese) i gruppi parlamentari avevano formalizzato un accordo che prometteva ai membri delle minoranze italiana e ungherese e ai cittadini delle altre repubbliche jugoslave che l’esito del plebiscito non avrebbe modificato il loro “status” politico e i loro diritti civili, invitandoli a partecipare alla votazione. Nelle “Linee guida per la nuova Costituzione slovena”, varate dal parlamento il 25 giugno 1991, si legge:
“La Repubblica di Slovenia garantisce la protezione dei diritti umani e delle libertà fondamentali di tutte le persone che si trovano sul suo territorio, indipendentemente dalla loro origine nazionale, senza alcun tipo di discriminazione…” (art. 3)
Immediatamente prima della proclamazione dell’indipendenza, inoltre, il governo aveva promesso che avrebbe reso possibile ai circa 200.000 “immigrati interni” provenienti dalle altre repubbliche l’acquisizione della cittadinanza slovena. Questo principio fu formalizzato nella Legge sulla cittadinanza (25 giugno 1991) e nella stessa Costituzione Slovena.
Le condizioni per acquisire la nazionalità slovena erano tre:
1) essere stati in possesso della “residenza permanente” in Slovenia alla data del 23 dicembre 1990 (quando ebbe luogo il referendum sull’indipendenza)
2) tale residenza doveva essere effettiva
3) presentare formale richiesta di acquisire la nazionalità slovena, entro il termine di sei mesi.
Secondo i dati del Ministero dell’Interno, a circa 170.000 persone, provenienti dalle altre repubbliche, sarebbe stata conferita la nazionalità slovena sulla base delle condizioni sopra elencate.
Rimanevano oltre 30.000 persone. Di queste
– circa 11.000 avrebbero lasciato la Slovenia
– 18.305 non avrebbero presentato la richiesta di acquisire la nazionalità slovena entro i termini fissati (che, come si è detto, erano di soli sei mesi), oppure avrebbero presentato domanda in tempo utile, ma essa sarebbe stata respinta (le istanze rigettate, secondo il ministero, sarebbero state 2.400). Tutti costoro, in ogni caso, erano in possesso della cittadinanza jugoslava e della “residenza permanente” in Slovenia.
Dal balletto delle cifre rese pubbliche, in modo tardivo e reticente (nel 2002), dal Ministero degli interni, non si riesce a evincere la consistenza di un terzo gruppo di persone: coloro ai quali fu concessa in un primo momento, e in seguito inspiegabilmente revocata, la cittadinanza slovena. Va specificato inoltre che la cifra di 18.305 persone si basa su dati non verificati, comunicati dal Ministero dell’Interno molti anni dopo i fatti, sotto la pressione dell’opinione pubblica. Vi è il fondato sospetto che il numero dei soggetti che si sono trovati in questa condizione sia molto più alto. A Helsinki Monitor, un’organizzazione non-governativa molto attiva in Slovenia, lo stesso ministero aveva infatti riferito una cifra sensibilmente maggiore: 62.816 persone (Rapporto annuale, International Helsinki Federation for Human Rights, 2001 – basato su dati comunicati dal Ministero dell’Interno nel dicembre 2000). Le informazioni relative a questo aspetto sono, a tutt’oggi, secretate e non consultabili.
In ogni caso, il dato “ufficiale” di “sole” 18.305 persone corrisponde a circa l’1% della popolazione slovena.
Le ragioni per le quali un numero così elevato di persone non ha richiesto la nazionalità slovena sono diverse. Molti erano impossibilitati a reperire i documenti necessari, dal momento che nelle regioni d’origine era esplosa la guerra. Altri non furono informati per tempo, essendo malati o assenti dalla Slovenia. Diverse persone, sconcertate dalla rapidità con cui precipitava il processo di disintegrazione dello stato federale, non se la sentirono di rinunciare allo status di “cittadino della Repubblica Federativa Socialista Jugoslava” per adottare quello di “cittadino sloveno” – punto e basta. Alcuni confondevano il concetto di “cittadinanza” con la cosiddetta “appartenenza etnica” e si sentivano rom, o ungheresi, o “bosniaci”, piuttosto che “sloveni”. Altri infine, nati e cresciuti in Slovenia, erano certi che la nazionalità slovena sarebbe stata loro accordata automaticamente.
Nessuna di queste persone, in ogni caso, poteva sospettare che la mancata acquisizione della nazionalità della neonata Repubblica Slovena avrebbe comportato la perdita di tutti i diritti civili e la sostanziale compromissione dei diritti umani.
La cancellazione (Izbris)
Il 26 febbraio 1992 con un’operazione segreta il Ministero degli interni della neonata Repubblica di Slovenia (retta da un governo di centro-destra) rimuove dai registri di residenza permanente tutti i cittadini jugoslavi (18.305 persone, secondo i dati diffusi diversi anni dopo dallo stesso Ministero degli Interni) che non hanno richiesto, o non hanno ottenuto la nazionalità slovena, privandoli con questo atto di ogni diritto civile e facendo venir meno le basi legali e materiali della loro esistenza.
Nella Slovenia di oggi, infatti, come nel precedente stato federale jugoslavo, i diritti sociali (diritto al lavoro, alla scolarizzazione, alla casa, alla pensione, all’assistenza sociale e sanitaria – la possibilità stessa di aprire un conto corrente bancario…) sono strettamente legati al permesso di “residenza permanente”, una sorta di “zoccolo duro” al quale sono ancorati i diritti delle persone.
La rimozione avvenne senza la minima base legale e senza che le persone coinvolte fossero informate. I loro dati anagrafici furono spostati dal registro dei residenti permanenti della Repubblica Slovena a un altro elenco (“Neaktivna evidenza – Evidenza inattiva” – uno dei misteriosi “buchi neri” del Ministero degli Interni), che raccoglie i nominativi di quanti, non essendo più in vita o per altri motivi, hanno perso definitivamente l’esercizio dei diritti civili.
Ha luogo, con questo atto, la “cancellazione” di oltre 18.000 persone. Un “genocidio virtuale” che si consuma davanti ai monitor dei computer, ma è destinato ad avere effetti devastanti su molte decine di migliaia di cittadini. Esso, infatti, non coinvolge solo i singoli “cancellati”, ma l’insieme delle loro famiglie.
Sul momento, tuttavia, in apparenza nulla accade. La vita procede normalmente, nella tranquilla Repubblica di Slovenia. Dovranno trascorrere mesi, oppure anni, prima che gli “izbrisani”, i “cancellati”, si rendano conto che è stata decretata la loro “morte civile”. La rivelazione avviene in vari modi, con apparente casualità, secondo un copione che mira a dissimulare il carattere premeditato e sistematico dell’intera operazione.
“Nel 1992 volevo rinnovare, a Dravograd, la mia patente di guida. L’impiegata mi aveva chiesto di portare anche il passaporto perché doveva registrare dei dati. Ha preso il passaporto, è andata in un’altra stanza e l’ha bucato. (…) Mi parve strano, perché era valido fino al 1995. Infine concluse: “Lei non può avere i nostri documenti.” Così sono rimasto senza documenti e, ovviamente, la mia patente non è stata prorogata. L’impiegata mi disse che potevo farlo nel mio paese.”
[Zorn, p.104-105]
E’ una delle modalità classiche attraverso le quali puoi scoprire di essere stato “cancellato”. Ti convocano in un ufficio pubblico con un pretesto, ti chiedono di portare il passaporto e gli altri documenti e poi, sotto il tuo sguardo esterrefatto, li distruggono.
Esistono altri scenari: ti presenti per il rogito della casa, ma il notaio ti informa, ridacchiando, che non puoi acquistarla perché sei uno “straniero”… “illegale” per giunta, clandestino insomma.
Oppure c’è stato un incidente stradale e all’ospedale si rifiutano di somministrarti le cure necessarie: non hanno diritto all’assistenza sanitaria, gli stranieri illegali.
Non serve a nulla far presente che da vent’anni paghi i contributi, come gli altri lavoratori.
Perdendo la “residenza permanente” non sei diventato solo, di punto in bianco, uno “straniero” – ma uno “straniero senza permesso di soggiorno”. Anzi, sei precipitato ancora più giù, se possibile, perché non hai neppure una casa da qualche altra parte del mondo, né un’ambasciata alla quale rivolgerti.
Era questa, la condizione degli “apolidi” che si aggiravano per l’Europa negli anni immediatamente precedenti la seconda guerra mondiale. Fuggiti dalla Germania di Hitler senza un passaporto
“…non avevano diritto di vivere da nessuna parte. Erano costretti a rimanere in movimento… una marcia infinita, interrotta solo dall’arresto per “ingresso illegale nel territorio dello stato”, e dalla successiva deportazione in un altro paese dove li attendeva il medesimo destino. Questa è la storia della gente senza passaporto. Ha inizio a Vienna, nel 1937, prima dell’occupazione nazista dell’Austria”.
Comincia con queste parole il film “So ends our night”, uscito negli Stati Uniti nel 1942, cinquant’anni prima dei fatti di cui si parla.
Alcune conseguenze della cancellazione
Un grande numero di “cancellati” fu costretto a emigrare. Diversi ottennero asilo politico in Italia, in Germania, in Jugoslavia, e perfino… in Slovenia. Accadeva a chi aveva la fortuna di imbattersi in un funzionario comprensivo, disposto a chiudere un occhio, che accettava di derubricarlo da “cittadino con residenza permanente” a “richiedente asilo”: un primo passo nel durissimo cammino verso la ricostruzione di uno straccio di “visibilità civile”.
Moltissimi rimasero in Slovenia in condizioni di clandestinità, venendo spesso rinchiusi in carcere o in qualche Centro di Permanenza Temporanea. In alcune occasioni, la “cancellazione” ebbe conseguenze tragiche. Vi furono casi di suicidio, altri di morte nell’indigenza o perché era stata negata l’assistenza medica.
Una ragazza, ricoverata d’urgenza per partorire, si vide sottrarre il figlio neonato perché l’assicurazione sanitaria era stata cancellata insieme a lei. Non poteva pagare il conto dell’ospedale e il bambino venne preso in “ostaggio”. [Juri 1]
Nella grande maggioranza dei casi i “cancellati” hanno perso il posto di lavoro, senza la possibilità di trovarne un altro. Molti sono rimasti senza pensione. Non potevano più guidare l’automobile, perché la patente di guida, rilasciata in Slovenia, era stata distrutta insieme agli altri documenti. Non erano in condizione di lasciare il paese, dal momento che non vi sarebbero potuti rientrare. Venivano spesso cacciati dalle proprie abitazioni, e anche quando ciò non accadeva, perdevano il diritto di riscattarle (nel processo di privatizzazione, gli appartamenti di proprietà dello stato potevano essere acquistati a un prezzo assai conveniente dagli inquilini – purché dotati di “residenza permanente”).
Numerose famiglie sono state divise dalla “cancellazione”, e ad alcuni genitori è stato impedito di formalizzare il proprio ruolo di padre.
Dalla “residenza permanente” alla “permanenza temporanea”
B.R. era arrivata in Slovenia negli anni ’80 come giovane operaia dalla Bosnia. Era impiegata in una fabbrica tessile e viveva in un piccolo paese, dove aveva preso in affitto una stanza. All’inizio degli anni ’90 perse il lavoro.
Non avendo richiesto la nazionalità slovena, fu cancellata dal “registro di residenza permanente”. Stava per perdere anche l’appartamento, perché non poteva più permettersi di pagare l’affitto. Un giorno – era il 1994 – si presentò la polizia a casa sua e le chiese i documenti. Non potendoli esibire, in quanto “cancellata”, venne trasferita a Ljubljiana e rinchiusa nel Centro di Permanenza Temporanea.
Per tutto questo tempo, B.R. ha “vissuto” nel Centro di Permanenza Temporanea, con l’eccezione di due o tre anni, passati in un “Centro profughi”, e di un anno, trascorso all’ospedale psichiatrico.
(Da una testimonianza raccolta da Jelka Zorn [Zorn, p. 122])
Terzo stato
La Bosnia è costituita da tre entità: musulmana, serba e croata. D. P. era un serbo di Bosnia, anno di nascita 1959. La famiglia vive ancora in Slovenia (la figlia ha 27 anni). Aveva la residenza permanente in Slovenia. La polizia lo ha espulso in Croazia: il “terzo stato”. I croati lo hanno accettato, e immediatamente deportato nello stato bosniaco (1992), dove fu consegnato all’enclave croata in Bosnia.
Un serbo nell’enclave croata? All’epoca, equivaleva a una condanna a morte. Fu rinchiuso in diversi lager, e infine, probabilmente, ucciso. Pare sia stato identificato attraverso il DNA, in una fossa comune. (Documentazione Croce Rossa, UNHCR. Archivio Alexander Todorović.)
“Questo procedimento era, all’epoca, usuale. I nostri poliziotti non lo hanno consegnato ai croati, gli hanno semplicemente ingiunto di attraversare il confine – prendendo un treno regolare.”
(Dichiarazione del capo di gabinetto del Ministero degli Interni, consigliere del governo. Nel 1998 è diventato direttore generale della polizia. Archivio Alexander Todorović.)
Terra di nessuno
M.B. ha vissuto in Slovenia dall’inizio degli anni ’70. E’ sposato con due figli. Negli anni ’80 ha intrapreso un’attività commerciale. All’epoca della secessione ha richiesto la cittadinanza e nel 1992 è diventato cittadino sloveno. Per poter comprare l’appartamento in cui viveva con la famiglia, una casa popolare data in concessione dallo stato, ha dovuto vendere tutti i poderi che aveva in Bosnia.
Quando nel 1993 si reca al Comune per rinnovare la carta d’identità, gli ritirano tutti i documenti e glieli invalidano. Scopre così che la cittadinanza gli è stata revocata ed è stato cancellato dal “registro di residenza permanente” – alla stessa stregua di coloro ai quali non era mai stata conferita la nazionalità slovena.
All’improvviso la sua vita si capovolge. Non ha più diritto di comprare l’appartamento e tutto il denaro messo da parte viene usato per gli avvocati (per la denuncia per “espropriazione illegale del diritto di cittadinanza” e “cancellazione illegale dal registro dei cittadini”).
Viene cacciato dalla Slovenia per due volte. Sebbene sia di origine serba (serbo bosniaco) è deportato al confine croato nel periodo peggiore della guerra. La polizia croata lo respinge alla frontiera; quella slovena sarebbe tenuta a riportarlo indietro.
Durante il viaggio di ritorno, i poliziotti fermano la macchina nel territorio tra i due posti di blocco, che non appartiene a nessuno dei due stati. Lo trascinano fuori dall’automobile, gli ficcano una pistola in bocca: “Se ti azzardi a tornare, la prossima volta premiamo il grilletto”.
M.B. chiede aiuto ai poliziotti croati. Gli preparano un caffè, e gli spiegano che ogni giorno la polizia slovena consegna loro una dozzina di persone. I croati vengono accolti (c’è bisogno di combattenti); i serbi, rimandati indietro. Alla fine gli indicano il punto in cui può attraversare il confine clandestinamente.
M.B. ha ripreso la sua vita in Slovenia con il terrore di subire maltrattamenti da parte della polizia.
In un’altra occasione lo hanno portato al commissariato per un interrogatorio e picchiato a sangue, rompendogli una costola e provocandogli gravi lesioni.
Nel 2001, a conclusione di un’estenuante battaglia legale, a M.B. è stata restituita la cittadinanza slovena (da una testimonianza raccolta da Jelka Zorn [Zorn, pp. 118, 132-133, 140-141, 144])
La battaglia degli “izbrisani”
“La settimana scorsa hanno occupato in modo pacifico un’aula di un edificio di Ljubljana che ospita la rappresentanza della Commissione Europea. Sono stati sfrattati violentemente da agenti della sicurezza privata. Continua il calvario dei cancellati, certo non lenito dall’attuale maggioranza di governo. (…) ‘Tutti i cancellati sono invitati al ballo in cui Zmago Jelinčič suonera’ il fucile mitragliatore’ era scritto su un manifesto appeso all’ingresso del gruppo parlamentare del Partito Nazionale Sloveno (SNS), una formazione di estrema destra, fondata e guidata dallo stesso Jelinčič. Un partito che sta formalmente fuori dalla maggioranza ma che di fatto fiancheggia il governo di Janez Janša, che al SNS ha affidato in cambio, suscitando sorpresa e costernazione, la vicepresidenza della Camera.” [Juri 2]
Per gli “izbrisani”, la scoperta della nuova condizione fu un fulmine a ciel sereno. In un primo momento, ognuno di essi visse l’esperienza della “cancellazione” in completa solitudine, in uno stato di disperazione. Le circostanze li inducevano a ritenersi il bersaglio di un “accanimento amministrativo” feroce, ma isolato; un abuso inspiegabile, ma occasionale, che per qualche motivo si era abbattuto sul loro capo.
I “cancellati” sono rimasti, per un lungo periodo, completamente all’oscuro del fatto che la violenza di cui erano oggetto non riguardava solo la loro persona, ma almeno un cittadino su cento della Repubblica di Slovenia. Ci vollero diversi anni perché la verità potesse affiorare e il fenomeno della “cancellazione” iniziasse a essere percepito nei suoi contorni reali.
Un po’ alla volta, le vittime di questa silenziosa, accurata operazione di pulizia etnica, hanno cominciato a incontrarsi, a conoscersi. E a far sentire la loro voce. Ha preso il via una robusta iniziativa politica e legale, in grado di mettere in difficoltà il governo sloveno. Le loro istanze hanno investito la Corte Costituzionale, inducendola a pronunciarsi.
Nel 1999, la Corte Costituzionale dichiarò l’incostituzionalità della ‘cancellazione’, rilevando che gli “izbrisani” erano vittima di un evidente vuoto legale, dato che nessuna delle normative esistenti permetteva la loro regolarizzazione.
Nella sua risoluzione, la Corte obbliga il legislatore a risolvere entro sei mesi l’evidente incompatibilita’ con la Costituzione e proibisce di espellere i ‘cancellati’ dal territorio sloveno. [U-I-284/94 del 4-2-1999, pubblicata sulla Gazzetta Ufficiale della Repubblica di Slovenia, n. 14/99]
Questa presa di posizione, che di fatto sancisce il diritto dei “cancellati” a riottenere lo status di residenti, viene ribadita in alcune sentenze successive [Up-60/97, 15-7-99; U-I-89/99, 6-10-1999; U-I-295/99, 18-5-2000]. Nella prima di esse, la Corte osserva che il riconoscimento della “residenza permanente” deve essere retroattivo, con effetto a partire dalla data della “cancellazione”.
Il governo di centro-sinistra, costretto a intervenire, lo fece in due tempi. Un primo provvedimento (ZUSDDD – Zakon o urejanju statusa državljanov držav naslednic nekdanje SFRJ v Republiki Sloveniji – Legge che regola lo status dei cittadini delle altre repubbliche ex-jugoslave presenti in Slovenia”, 8-7-1999) fissava, ancora una volta, un termine strettissimo (tre mesi!) per presentare la domanda di regolarizzazione (alla quale andava allegata tutta la documentazione necessaria).
Inoltre, al fine di ottenere nuovamente lo status di residenti era indispensabile provare di non essersi allontanati dal territorio sloveno – e i “cancellati” espulsi con la forza o indotti in varie forme a emigrare si contavano a migliaia!
Infine, il provvedimento con cui si ripristinava la “residenza permanente”, non avendo carattere retroattivo, lasciava un “buco” di diversi anni nel curriculum civile delle persone “cancellate”, con pesanti effetti sul piano sociale ed economico.
Una seconda legge (Zakon o spremembah in dopolnitva zakona o državljanstvu Republike Slovenije-Č), promulgata dal Parlamento sloveno nel novembre del 2002, non modificò sostanzialmente la situazione. Il principio della retroattività fu nuovamente ignorato.
Nel 2003, la Corte Costituzionale si è pronunciata sulla legge del 1999 (ZUSDDD) e, indirettamente, sul successivo provvedimento del 2002, ispirato alla medesima logica. Nella sentenza, prendendo in esame il caso delle persone che hanno riottenuto la “residenza permanente”, la Corte dichiara che la legge e’ inconstituzionale perché la “residenza permanente” non viene riconosciuta in senso retroattivo.
Di conseguenza, la Corte sancisce l’obbligo di emettere i documenti aggiuntivi con i quali i ‘cancellati’ potranno provare la loro condizione di residenti, con effetto a partire dal giorno della cancellazione. Inoltre, essa impone nuovamente al Governo di eliminare entro sei mesi gli aspetti incostituzionali presenti nella normativa. Tra questi, il mancato riconoscimento dei diritti di quanti erano stati espulsi dalla Slovenia a causa della “cancellazione”. [U-I-246/02, 3-4-2003]
La questione si politicizzò bruscamente. La destra xenofoba guidata da Janez Janša, allora all’opposizione, organizzò una campagna di denigrazione nei confronti degli “izbrisani”, stigmatizzati come “antisloveni”, e della stessa Corte Costituzionale. Il governo di centro-sinistra mise in atto un tentativo maldestro di “disinnescare” la questione. Anziché applicare integralmente le sentenze della Corte Costituzionale e reintegrare i cancellati nella loro condizione di residenti, con decorrenza dal 26 febbraio 1992, promulgò un provvedimento ad hoc, la cosiddetta “legge tecnica sui cancellati”. Attraverso di essa si intendeva rendere retroattiva la “residenza permanente” solo per i “cancellati” che ne erano già in possesso. Tutti gli altri sarebbero rimasti esclusi. Ancora una volta venivano disattese, nella sostanza, le indicazioni della Corte Costituzionale.
La legge fu immediatamente contestata dagli “izbrisani”, che videro in essa una manovra finalizzata a dividere il movimento: mentre si riconoscevano i diritti di una minoranza, si rendeva inaccessibile a tutti gli altri la soluzione del problema.
Sul versante opposto, la destra individuò in questo provvedimento, pasticciato e contradditorio, l’occasione che da tempo attendeva, e promosse un referendum per la sua abrogazione. Il quesito referendario non era di agevole lettura:
“È d’accordo con l’ottavo paragrafo della sentenza US RS no. U-I-26/02-28 (EPA 956/III), accettato dal parlamento della Repubblica Slovena il giorno 25.11.2003?”
Il 4 aprile 2004 il 31% dell’elettorato sloveno si recò a votare, rispondendo all’appello della destra. In altri paesi, l’esigua affluenza alle urne (meno di un elettore su tre) avrebbe sancito il “flop” dell’iniziativa, invalidando questa assurda istigazione al linciaggio “per via referendaria”. In Slovenia essa assunse il significato opposto: una vittoria della destra xenofoba.
Gli sviluppi politici successivi sono tutti sfavorevoli alla causa dei cancellati. Finché è rimasto in carica, il governo liberale e socialdemocratico ha mantenuto una linea di ambiguo ostruzionismo, dilatando i tempi di una soluzione della vicenda. La Commissione europea non si è mai pronunciata, e il suo Presidente
“…Romano Prodi, giunto a Gorizia il 1 maggio 2004 per celebrare l’allargamento dell’Unione Europea, non ritenne opportuno incontrare il portavoce dei cancellati, Alexander Todorović, che cercava di far sentire la voce di molti disperati.” [Licata]
Non trovando ostacoli di rilievo lungo il proprio cammino, né in Slovenia né in Europa, l’opposizione di destra ha potuto cavalcare indisturbata l’ondata xenofoba, capitalizzandola alle elezioni del 2004, che hanno portato Janez Janša alla guida del paese.
Oggi, gli esponenti del governo dichiarano con improntitudine che “la cancellazione non è mai esistita e, di conseguenza, nemmeno i cancellati esistono”.
“It’s not legal, it’s not illegal. It’s beyond anything legal”
Il 1° maggio del 2004 la Slovenia è entrata a far parte dell’Unione Europea. Le indicazioni della Corte Costituzionale sono tuttora lettera morta. Per nessuno dei “cancellati” è stata ripristinata, con effetto retroattivo, quella condizione di pienezza di diritti che si traduce, nella Slovenia di oggi come nella Jugoslavia di ieri, nella formula amministrativa della “residenza permanente”.
La durissima battaglia degli “izbrisani”, sostenuta da diverse associazioni e da parte dell’opinione pubblica, e le fondamentali vittorie ottenute dal loro movimento sul terreno del diritto costituzionale, hanno determinato un alleggerimento della condizione in cui versano molti di essi. Secondo dati del Ministero degli Interni, circa 11.000 persone sono riuscite a ottenere di nuovo, in un modo o nell’altro, la “residenza permanente”.
Dei costi umani ed economici, il Ministero non fa alcun cenno. Di certo, questi cittadini hanno raggiunto tale risultato a prezzo di enorme fatica e di spese ingenti: non è facile ottenere i documenti dal proprio paese natale, se nel frattempo esso ha cambiato nome e vi imperversa la guerra civile.
A ciò si deve aggiungere che non poche persone, nate e vissute in Slovenia, hanno dovuto procurarsi dei certificati falsi, per potersi presentare all’Ufficio Immigrazione e registrarsi come stranieri.
A nessuno dei cancellati sono stati risarciti i danni morali e materiali prodotti da un provvedimento totalmente illegittimo, che offende i diritti umani. Né vi è stata, da parte del governo sloveno, la minima assunzione di responsabilità. Il suo comportamento si potrebbe definire in questi termini: “It’s not legal, it’s not illegal. It’s beyond anything legal” (“Non è legale, né illegale. E’ al di là di tutto ciò che è legale”). Perfino chi ha vinto il ricorso alla magistratura, riottenendo la cittadinanza slovena, si ritrova con un “buco” di diversi anni nella propria storia “ufficiale”. In quel lasso di tempo, per lo Stato sloveno, egli “non esisteva” – con le conseguenze che si possono immaginare ai fini della pensione e di un complesso di implicazioni di carattere economico e sociale.
Il dato più rilevante, in ogni caso, è che migliaia di persone non hanno riavuto la “residenza permanente”. Alcuni sopravvivono alla meno peggio, classificati come “stranieri” autorizzati a rimanere sul territorio sloveno in virtù di varie tipologie di permesso di soggiorno temporaneo, in una condizione di insolubile precarietà. Molti altri, ancora oggi, sono “cancellati” a tutti gli effetti. La loro situazione si fa sempre più drammatica; hanno alle spalle tredici anni di violenze, intimidazioni, negazione sistematica dei diritti umani.
Il caso più tragico, forse, è quello dei minorenni, che per far visita ai parenti durante le vacanze hanno lasciato la Slovenia per un breve periodo. Al ritorno, gli è stato impedito di rientrare nel paese.
Si tratta di un gran numero di persone, nate in Slovenia, che sopravvivono in Macedonia, Serbia, Bosnia, Kosovo e Croazia, senza poter regolarizzare la propria posizione. Lo stato sloveno si rifiuta di fornire loro qualsiasi genere di documento.
“Croata”, che ti piaccia o no
M. U. è nata in Slovenia negli anni ‘50 da madre slovena. Il padre era serbo. M. U. era convinta di essere cittadina slovena fino a che, nel 1992, ebbe un bimbo. Recatasi all’anagrafe per iscrivere il figlio, scoprì di essere stata registrata come… cittadina croata! Aveva perso, di conseguenza, la “residenza permanente”, entrando a far parte della schiera dei “cancellati”.
Da un giorno all’altro, M.U. si ritrovò in una condizione di totale vulnerabilità sul piano dei diritti civili. Ciò accadeva in una piccola città della Slovenia, dove era nata e vissuta per quarant’anni. La madre, cittadina slovena, era stata collega di lavoro degli impiegati che l’avevano “cancellata”.
M.U. ha dovuto escogitare una complessa strategia per riacquistare una qualche “visibilità” sul piano sociale. La volevano “croata” a tutti i costi, e ha dovuto adattarsi. Grazie alla solidarietà di alcune persone conosciute casualmente, ha firmato un finto contratto d’affitto in Croazia, simulando di esservi residente e riuscendo a ottenere un passaporto croato.
Dopo sette anni di illegalità, nel 2000 M.U. ha acquisito lo status di “straniero con residenza permanente”. In questo modo può continuare a vivere nella cittadina in cui è nata e cresciuta, dove ha frequentato le scuole e dove tutti la conoscono da sempre. (Da una testimonianza raccolta da Jelka Zorn [Zorn, pp. 105-107]).
Coesione familiare
S. S. è stato definito “profugo di Bosnia” benché sia vissuto in Slovenia per oltre 40 anni. Ha moglie e tre figli. L’intera famiglia è stata “cancellata”, tranne uno dei figli (e nessuno conosce il motivo di questo “trattamento privilegiato”: le vie della burocrazia sono infinite…) Per dodici anni S. S. è riuscito a sopravvivere in una condizione di completa clandestinità. Solo nel 2003 è stato chiamato in tribunale per una irregolarità amministrativa. Resisi conto della situazione, i poliziotti lo hanno immediatamente chiuso nel Centro di Permanenza Temporanea di Ljubljana. Alla fine, lo hanno classificato come “richiedente asilo”, concedendogli di vivere fuori dal C.P.T. e decretando che deve eleggere residenza, in qualità di profugo, sotto la custodia della figlia (“cancellata” pure lei!).
Da allora, si trova in “libertà vigilata” nella casa in cui è vissuto per 40 anni. Non è autorizzato a uscire dai confini cittadini.
Ogni mese è tenuto a presentarsi all’ufficio di polizia per rinnovare il permesso di soggiorno (Testimonianza raccolta da Alexander Todorović e Karaula MiR).
Assistenza sanitaria
B., nato in Bosnia. Entrato in Slovenia all’eta di 6 mesi, 47 anni fa. Scuola primaria e secondaria in Slovenia. Sempre vissuto in Slovenia. Una vita di lavoro (e di contributi per l’assistenza sanitaria).
All’atto dell’indipendenza della Slovenia ha avuto un incidente stradale: frattura dell’anca, alcune protesi artificiali e diversi mesi di ricovero in ospedale.
Quando è entrato in ospedale era un cittadino normale, con tutte le garanzie del caso. All’uscita era un “cancellato”, privo di assistenza sanitaria.
A tutt’oggi non ha potuto sottoporsi a un intervento chirurgico indispensabile per proseguire la terapia e completare le protesi. Questa situazione determina gravissimi problemi al sistema circolatorio, in un quadro di trombosi dilagante. Le gambe sono una ferita aperta; i problemi circolatori hanno già provocato la perdita della vista a un occhio.
Altri cancellati, in condizioni simili, hanno perso la vita (Testimonianza raccolta da Alexander Todorović e Karaula MiR).
Welcome to Kosovo
A.B., nato a Peč – Kosovo nel 1969. Viveva in Slovenia, con la “residenza permanente”. Nel 1993 si recò a visitare dei parenti in Germania. Come altri “cancellati”, non incontrò alcun problema per uscire dal territorio della repubblica. Al rientro però, le autorità di frontiera slovene lo hanno arrestato. Dopo aver distrutto tutti i suoi documenti, passaporto incluso, lo hanno rinchiuso in un C.P.T. – all’epoca denominato “Centro transitorio per l’espulsione degli stranieri”. Dopo qualche giorno A.B. è stato deportato in Albania, benché non vi avesse mai messo piede, nemmeno come turista. Vi è finito solo perché non c’erano, all’epoca, collegamenti con la Serbia. L’Albania lo ha immediatamente espulso in Slovenia, rispedendolo al mittente.
In Slovenia fu nuovamente incarcerato, nello stesso C.P.T. di prima.
E’ evaso e si è rifugiato illegalmente in Germania, dove è stato ufficialmente classificato come “profugo dal Kosovo”, sulla base del certificato di nascita: l’ultimo documento che gli è rimasto.
Vive in Germania, dove non può più usufruire della condizione di richiedente asilo, che è stata abolita per chi proviene dal Kosovo. Le autorità tedesche vogliono espellerlo in Kosovo, dove non conosce nessuno: i parenti vivono tutti a Maribor, in Slovenia.
Nella sola Stuttgart, una sessantina di persone versano nella medesima condizione di A.B. (Documentazione: archivio Alexander Todorović).
Riferimenti
[Juri 1] Franco Juri Slovenia: cancellati, vergognoso silenzio della Commissione europea, in www.osservatoriobalcani.org (20 aprile 2004)
[Juri 2] Franco Juri Il futuro incerto dei cancellati, in www.osservatoriobalcani.org (28 febbraio 2005)
[Licata] Andrea Licata La lezione dei cancellati, in www.nonluoghi.it (5 luglio 2005)
[Zorn] Jelka Zorn The politics of exclusion during the formation of the slovenian state, in “The erased. Organized innocence and the politics of exclusion”, Mirovni Inštitut, Ljubljana 2003.
APPENDICE
EFFETTI DELLA »CANCELLAZIONE« SUL PIANO DEI DIRITTI
(Dal saggio di Jelka Zorn: The politics of exclusion during the formation of the slovenian state, in “The erased. Organized innocence and the politics of exclusion”, Mirovni Inštitut, Ljubljana 2003, pp.147-148)
1. Perdita dell’impiego e impossibilità di trovarne uno nuovo.
2. Danni materiali alla persona:
– non avendo la possibilità di lavorare regolarmente si interrompe il computo complessivo degli anni utili ai fini della pensione
– ingenti spese legali, dovute all’altissimo costo dei servizi legali, alle parcelle degli avvocati, alle tasse amministrative, agli oneri giudiziari…
– ingenti spese sanitarie, per il fatto di essere stati esclusi dalle prestazioni del servizio sanitario nazionale
3. Negazione del diritto alla pensione.
4. Negazione del diritto alla salute, dal momento che i »cancellati« sono stati privati della possibiltà di usufruire delle prestazioni del servizio sanitario nazionale.
5. Perdita del diritto alla casa e impossibilità di riscattare l’appartamento in concessione (nel processo di privatizzazione i residenti avevano facoltà di comprare le case »sociali« a un prezzo conveniente, un diritto negato ai »cancellati«).
6. Violazione del diritto degli adulti ad accedere all’educazione elementare.
7. Separazione dell’unità familiare e violazione del diritto del bambino di vivere con i propri genitori (la separazione avveniva in conseguenza all’espulsione dalla Slovenia di uno o più membri della famiglia. I »cancellati« venivano rimossi anche daillo stato di famiglia anagrafico).
8. Creazione di profughi sloveni (i »cancellati« che hanno, volontariamente o meno, lasciato la Slovenia, chiedevano asilo politico in vari stati Europei – prevalentemente Germania e Italia. C’è anche chi ha ottenuto lo status di »profugo sloveno« in Serbia, in piena guerra).
9. Violazione del diritto di eleggere il proprio luogo di residenza, dato che ai »cancellati« veniva imposto di risiedere all’estero.
10. Violazione del diritto di formalizzare il proprio ruolo di padre (in alcuni casi al padre del bambino è stato negato il diritto di iscrivere il proprio nome nell’atto di nascita del figlio, con la motivazione che si trattava di uno »straniero«).
11. Negazione della libertà di movimento oltre i confini del territorio sloveno. I »cancellati« che hanno lasciato la Slovenia non potevano rientrare in modo legale. Molte persone non hanno potuto, per questo motivo, assistere ai funerali dei loro cari. Molti giovani che si erano recati all’estero per visitare i parenti nel periodo delle vacanze del 1992, hanno appreso di essere stati »cancellati« solo alla frontiera, al momento di tornare in Slovenia. Di conseguenza, non hanno potuto riunirsi con i propri genitori.
12. Negazione della possibilità di guidare un’automobile. Le regole relative ai permessi di guida furono modificate senza informare, in modo pubblico e trasparente, le persone interessate. Quanti avevano un permesso di guida »straniero« (rilasciato sia in Slovenia, sia in altre Repubbliche della ex-Jugoslavia) avrebbero dovuto convertirlo in una patente slovena entro il termine perentorio di 6 mesi, ma molti di loro non lo fecero, perché non ne erano al corrente. Venivano accusati di violare le leggi slovene, ogni volta che erano sorpresi alla guida di un veicolo con una patente croata, o jugoslava.
13. Impedimento a condurre legalmente le principali attività economiche e sociali: i »cancellati« non potevano comprare o vendere proprietà, dar vita a un’attività commerciale, fondare una ditta o aprire un conto corrente bancario. Non potevano registrare l’automobile – e nemmeno possedere un telefono cellulare (naročniškega razmerja)…
14. Esclusione dalla partecipazione alla vita politica nelle sue diverse articolazioni.
15. Esposizione quotidiana all’arbitrio dei funzionari di polizia, che in molti casi imponevano la propria volontà con comportamenti brutali per i quali non sono stati mai sanzionati.
16. Esposizione quotidiana all’atteggiamento arrogante, corredato da insulti nazionalisti e razzisti, degli impiegati degli uffici municipali. Simili comportamenti si accompagnavano spesso al deliberato occultamento di informazioni essenziali al fine di regolarizzare la posizione dei »cancellati«.
17. Esposizione a offese, insulti e minaccie tramite il telefono e la posta, da parte dei vicini.
18. Violazione del diritto alla tutela legale e giudiziaria.
19. Violazione del diritto all’informazione: oltre al fatto, fondamentale, di non essere stati informati della propria »cancellazione dal registro di residenza permanente«, anche negli anni successivi un numero assai rilevante di persone non ha potuto procurarsi le informazioni essenziali dalle istituzioni responsabili.
20. Violazione del diritto alla privacy delle consegne postali.
21. Violazione del diritto a candidarsi per ottenere l’assistenza sociale.
22. Violazione dei diritti delle persone incarcerate. I »cancellati« in stato di reclusione venivano privati della possibilità di lasciare la prigione per delle licenze brevi.
Migranti: Slovenia, terra di transito
14.02.2005 osservatoriobalcani.org
Un intenso reportage dal confine tra Slovenia e Croazia, divenuto “baluardo” esterno dell’Unione. La migrazione vista con gli occhi dei “passeur” e dei poliziotti di confine.
Di Uros Skerl – Delo
Selezionato da ‘Le Courrier des Balkans’, tradotto da Osservatorio sui Balcani
“Questi punti neri sono degli animali e quegli altri, sono delle persone”, nota la voce tremante di un poliziotto, congelato dal freddo dell’inverno e dal vento sferzante. Siamo in una vettura blindata nei pressi nella campagna di Brezice. Il rumore della telecamera ad infrarossi che ronza sopra le nostre teste. Tesi osserviamo lo schermo sul quale appaiono minime differenze tra i serpenti che smuovono l’erba, a pochi passi dalla frontiera, alla nostra destra, e le colonne di migranti affaticati dalla loro lunga marcia, sulla destra dello schermo. La loro dura attraversata, dall’Asia centrale sino ai nostri confini, è arrivata al termine. Alla soglia di un “futuro luminoso” alcuni poliziotti, felici di essere nuovamente riusciti a proteggere la frontiera dell’Unione europea, attendono i migranti.
I poliziotti ritengono di fare un lavoro inquietante, e, a giudicare dalle immagini registrate, si rischia di credere di partecipare ad un gioco d’azione virtuale. Solo che si tratta della realtà. Riuscire in questo “gioco” sembra alla portata di ciascuno. Solo il tempo resta un rivale all’altezza. L’arresto rapido ed immediato di questi fuggitivi offre la possibilità di prevenire altri arrivi di massa di immigrati clandestini.
Teoria economica
La Slovenia è divenuta l’avamposto della frontiera a sud est dell’Europa dall’adesione del Paese all’Unione. Tra i migranti che guadano i fiumi Krka, Kolpa, Sotla e Mura in pochi desiderano restare in Slovenia. Lo scorso anno la polizia slovena ha arrestato 5646 clandestini dei quali circa 2000 erano richiedenti asilo.
Secondo gli esperti della polizia si tratta spesso di una tattica premeditata che permette loro di evitare un’estradizione alle autorità frontaliere croate. La polizia slovena lo ritiene un abuso della domanda d’asilo. In effetti, mentre il migrante è provvisoriamente portato a Ljubjana, in uno stabile apposito o “in un centro d’ospitalità per stranieri”, ha ancora qualche possibilità di riuscire ad organizzare il suo viaggio verso ovest.
“I grandi Paesi europei sono consapevoli del fatto che gli stranieri che entrano illegalmente in Slovenia si dirigono verso di loro”, sottolinea Darko Postrak, a capo della sezione per la protezione della frontiera. “Così l’UE ha sbloccato dei fondi per equipaggiare la nostra polizia di mezzi moderni rendendo possibile un controllo migliore della ‘linea verde’. Questo equipaggiamento comprende anche vetture con telecamere ad infrarossi”.
La polizia slovena ritiene che la maggior parte di chi cerca di attraversare illegalmente la frontiera lo fa per ragioni economiche. Il controllo più serrato del confine causa sicuramente difficoltà maggiori ai migranti ed ai trafficanti di persone. Il numero degli arresti comunque ristagna e la polizia stima che circa il 30% dei clandestini riescono a sfuggire ai controlli.
Flusso continuo di migranti
I poliziotti ammettono apertamente la pena che provano davanti a queste persone braccate nelle campagne, emblema della più drammatica delle povertà. Ma, per Darko Postrak, questi migranti non sono affatto coscienti di cosa li aspetta in Europa, assoggettati al lavoro clandestino, in condizioni non molto lontane dalla schiavitù.
L’economia globale non ha limiti. Ciononostante l’approccio “economico” ed impersonale della polizia nei confronti di questa gente presenta il loro esodo esclusivamente come dovuto alla miseria. La loro demonizzazione nella società inquieta inoltre i rappresentanti delle associazioni di cittadini e i ricercatori sugli effetti negativi della globalizzazione.
“Dall’adesione della Slovenia agli Accordi di Schengen siamo ossessionati dalle migrazioni e dalla difesa delle frontiere”, dichiara Aldo Milhonic, ricercatore presso l’Istituto della Pace (Mirovni Institut) di Lubiana. “Non ci rendiamo conto che migrazioni di portata ben più ampia, riguardanti milioni di persone, si verificano in Asia o in Africa. Il nostro punto di vista è molto eurocentrico”. Aldo Milhonic stima che la preoccupazione dell’UE in merito alle migrazioni clandestine si stia accrescendo, e quest’ultima, arriva ad esigere nuovi centri per i rifugiati costruiti lungo le sue frontiere.
“L’UE spinge con furbizia le proprie frontiere verso l’esterno per controllare i flussi migratori. In questo modo verifica la lealtà dei Paesi candidati e la possibilità che entrino nell’Unione. Ma occorre anche fare molta attenzione alla crescita della xenofobia nella nostra società, la situazione della Slovenia è mutata radicalmente. All’inizio delle guerre balcaniche noi eravamo una terra d’accoglienza per i rifugiati della ex-Yugoslavia, ma poco a poco abbiamo dissipato questa spinta solidale”.
Un Paese turistico
La ripartizione non equa della ricchezza nel mondo ispira molti artisti contemporanei che oscillano tra attivismo politico e espressione acuta dei tremori della terra. Come ha scritto Thomas Mann, gli artisti sono i sismologi in grado di avvertire i piccoli movimenti della società, piccoli sintomi che spesso annunciano catastrofi. Così, secondo gli artisti, il voyeurismo dei poliziotti nascosti nelle loro vetture blindate, l’atteggiamento collaborativi della popolazione locale presso le frontiere, l’incriminazione dei passeur che, a loro avviso, non fanno altro che aiutare dei cittadini del Terzo Mondo a cominciare una vita migliore, e soprattutto l’atteggiamento dei media non annunciano nulla di buono.
“Se chiedete a chi organizza questi ‘passaggi’ cosa rappresentino per loro questi migranti, vi rispondono che sono contenti per i ‘loro’ migranti solo se riescono a portarli dall’altra parte della frontiera”, dichiarano aprlando per allusioni piene di significati Irena Pivka e Brane Zorman che, oramai da qualche anno, stanno lavorando ad un progetto artistico che si basa sul tema degli stranieri e delle frontiere.
“Va bene il transito, ma non che questi stranieri rimangano in Slovenia”, è così che riassumono la mentalità dei “passeur”.
Irena e Brane si sono interessati al significato della frontiera e, di conseguenza, alla differenziazione tra “noi”, gli “altri” e “gli stranieri”. Il progetto tratta tre ambiti che sono stati suddivisi in zona A, zona B e zona C. Questa serie esamina la risonanza nella società della soppressione delle frontiere da una parte e della creazione di nuovi muri dall’altra.
Irena Pivka e Brane Zorman analizzano l’urto della potenza e dell’impotenza della comunicazione tra gli autoctoni, protetti dalla legge, e gli stranieri, vulnerabili ed arrestati nei boschi.
All’inizio di queste riflessioni hanno girato un cortometraggio intitolato “Zona turismo”, una parodia degli spot pubblicitari che invitano gli stranieri a visitare la Slovenia. In questo progetto hanno svolto un vero e proprio lavoro di ricerca. Hanno ad esempio interrogato gli organizzatori del traffico di persone nelle prigioni di Stajerska. Combinando quanto emerso con quanto affermato dai poliziotti hanno creato una storia turistica della Slovenia, una Paese turistico di transito.
120 passaggi di clandestini al giorno
I prigionieri raccontano che i passaggi avvengono senza difficoltà ed affermano che in Slovenia vengono organizzati ogni giorno circa 120 passaggi di clandestini. Questi dati non corrispondono con quelli della polizia che fissa al 70% la percentuale di tentativi bloccati.
I due artisti si sono confrontati con la polizia, con gli organizzatori dei traffici, con lo Stato, gli operatori economici prima di constatare che i dati comunicati da ciascuno di questi organismi differivano tra loro.
Il film finisce con la citazione significativa di un ufficiale di polizia: “Se il mondo si apre affinché ciascuno possa andare dove preferisce, l’umanità arriverà alla sua fine. Ci si ucciderebbe gli uni con gli altri”.
Nella vettura blindata, presso le campagne di Brezice, il poliziotto ha chiuso gli occhi con soddisfazione. Lo Stato prende sul serio le frontiere, anche se non le capisce per niente.
La questione dei rifugiati in Slovenia
09.09.2004 scrive Barbara Sartori osservatoriobalcani.org
Nonostante la Slovenia abbia negli anni migliorato la propria legislazione relativa ai rifugiati e ai richiedenti asilo, quest’ultima è ancora fonte di alcune preoccupazioni. In particolare ci si chiede se le inadeguatezze della legge sull’asilo, i disincentivi per le persone a cui è garantita la protezione temporanea ed i serrati controlli alla frontiera non vanifichino tali miglioramenti.
Fonte principale delle informazioni il sito di US Committee for Refugees, che ha recentemente pubblicato un rapporto sulla situazione di rifugiati, sfollati e richiedenti asilo nei diversi Paesi del mondo.
Alla fine del 2002 la Slovenia ospitava all’incirca 380 persone tra rifugiati e richiedenti asilo.
In realtà solo una di queste si vedeva attribuito lo status di rifugiato. Le altre o godevano di una protezione temporanea (177 bosniaci), o dell’asilo umanitario (2 persone, un nigeriano ed uno jugoslavo), o nel peggiore delle ipotesi vedevano il loro caso ancora pendente davanti alle autorità slovene (200 persone).
Durante il 2002 hanno presentato richiesta d’asilo 640 persone, ben 860 in meno rispetto all’anno precedente. Le autorità hanno giudicato più di 100 domande, ma hanno attribuito lo status di rifugiato solo ad un liberiano e in due casi hanno garantito l’asilo umanitario, basandosi sulla previsione dell’articolo 3 (sulla tortura) della Convenzione Europea sui diritti umani.
Il 2002 ha visto una forte diminuzione sia nel numero delle domande d’asilo che in quello delle migrazioni illegali. Ciò è per lo più attribuibile all’intensificarsi dei controlli di frontiera tra la Slovenia ed i Paesi confinanti. Il pericolo è che controlli così serrati possano ostacolare l’accesso dei richiedenti asilo all’iter previsto dalle leggi slovene.
La Slovenia, alla fine del 2002, non aveva ancora adottato una politica d’integrazione per i rifugiati. Tuttavia, durante tale anno, il Parlamento ha varato un decreto sulle “condizioni di accoglienza per i richiedenti asilo e le persone a cui sono garantite speciali forme di protezione”, nel quale sono definiti i criteri e le procedure per ricevere l’assistenza di base (inclusa l’abitazione, l’istruzione scolastica e i servizi sanitari). Inoltre, il governo ha stabilito la separazione dei Centri per gli stranieri, dove vengono accolti i migranti illegali, dalle Case per l’asilo, che ospitano i richiedenti asilo e, grazie ai fondi garantiti dall’Unione Europea, ha iniziato i lavori di costruzione del nuovo centro di accoglienza a Ljubljana, il quale dovrebbe garantire migliori condizioni di vita per i richiedenti asilo rispetto alle case d’accoglienza.
I richiedenti asilo in Slovenia possono presentare le loro domande al Ministero degli interni, ai centri d’accoglienza o alla polizia, ma non alle autorità di confine, che hanno invece l’ordine di rimettere i richiedenti asilo ai centri d’accoglienza.
Qualsiasi richiedente ha diritto ad un’udienza individuale e, qualora si vedesse rifiutata la domanda iniziale, a presentare appello alla Corte amministrativa, che si deve esprimere entro 30 giorni.
La legislazione slovena prevede anche una procedura per le domande manifestamente infondate. Tra queste vanno incluse quelle che “provengono” da Paesi ritenuti sicuri (nel 2002, l’Unione Europea e l’Ungheria). In questo caso il richiedente asilo ha 5 giorni per presentare appello, ottenendo così la sospensione temporanea dell’espulsione.
La legislazione slovena prevede 3 forme di protezione: l’asilo (dal 1990 al 2002 è stato garantito solo cinque volte), l’asilo umanitario (nel caso che i richiedenti asilo siano a rischio di tortura nel Paese di provenienza, secondo il dettato della Convenzione Europea sui diritti dell’uomo) e la protezione temporanea (la Slovenia l’ha garantita ai bosniaci ed ai kossovari fuggiti dai loro Stati a causa delle guerre civili – nessun rifugiato kossovaro era più sul territorio sloveno alla fine del 2002-).
I beneficiari della protezione temporanea si vedono garantita l’assistenza sanitaria, una sistemazione (in centri collettivi), l’istruzione scolastica e la possibilità di presentare domanda d’asilo.Possono inoltre lavorare, ma per un massimo di 2 mesi all’anno o alternativamente per 8 ore a settimana.
Alla fine del 2002, le autorità slovene, consce delle inadeguatezze della legge sulla protezione temporanea, hanno programmato una sua revisione estensiva per il 2003, pianificando di garantire ai beneficiari di tale protezione la possibilità di ottenere la residenza permanente.
Il 2002 si è comunque chiuso con un senso di preoccupazione, come sottolineato da parte del Comitato americano per i rifugiati, soprattutto per quanto riguardava i disincentivi per coloro a cui era garantita la protezione temporanea.
Altra fonte di apprensione è tutt’oggi la questione dei “cancellati”, ossia di 18 mila persone provenienti dalla Jugoslavia che nel 1992, dopo non aver regolato il proprio status di cittadinanza nei tempi previsti dalla legge, si videro cancellata la residenza in Slovenia e con essa i diritti sociali, di lavoro e l’assistenza sanitaria che la legge riconosce agli stranieri con residenza. Si videro oltretutto imposto l’obbligo del visto turistico ogni 3 mesi per risiedere a casa propria.
Questa “cancellazione” è stata ripetutamente dichiarata anticostituzionale ed illegale dalla Corte costituzionale. Nonostante ciò, il Ministro degli Interni non ha ancora preso dei provvedimenti.
Le migrazioni in Slovenia
30.07.2002 osservatoriobalcani.org
Analisi dei flussi migratori e delle problematiche ad essi connesse nella vicina Slovenia. Da terra di emigrazione a snodo di transito.
La situazione
La Slovenia occupa, tra i paesi di nostro interesse, una posizione peculiare, dovuta allo stadio particolarmente avanzato dei negoziati per l’adesione all’Unione europea, e al potenziale emigratorio relativamente basso in virtù del buon livello socioeconomico, del tasso di disoccupazione al di sotto della media europea e di una popolazione complessiva di soli due milioni di abitanti. Queste caratteristiche hanno reso particolarmente indigesta alle autorità slovene la decisione della Commissione europea di non procedere immediatamente all’applicazione dell’acquis communautaire in materia di libera circolazione dei lavoratori.
Se il potenziale emigratorio della Slovenia è ridotto, il paese è diventato negli ultimi anni uno snodo fondamentale delle migrazioni est-ovest, regolari o irregolari, e anche della tratta di esseri umani, fenomeni che hanno recentemente acquistato un rilievo specifico, in quanto nel futuro prossimo i confini sud orientali della Slovenia costituiranno la frontiera esterna dell’Unione europea. La traduzione in politiche sull’immigrazione e dell’accoglienza di queste preoccupazioni è documentata sia dalla descrizione, da parte del governo sloveno, dell’immigrazione illegale come una minaccia nazionale, sia dall’adozione di pratiche simili ai nostri centri di permanenza temporanea.
Documentazione
Government of the Republic of Slovenia-Public Relations and Media Office, Illegal migration-a threat to Slovenia’s national security, January 2001
Government of the Republic of Slovenia-Public Relations and Media Office, No influx of Slovene workers to the EU expected, February 2001
Domenico Chirico, Nuova frontiera, solite politiche per i migranti.
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