Intendo concentrare la vostra attenzione su alcuni aspetti nei confronti dei quali, molto spesso se non sempre, sorvoliamo quando parliamo di socialismo e della sua accezione latinoamericana nota come “Socialismo del Siglo XXI”.
Ciò su cui sorvoliamo riguarda i referenti sociali di questo progetto o, per usare un termine adatto alla struttura della società capitalista, di classe, in una politica che abbia come obiettivo l’instaurazione del socialismo. In America Latina i referenti del processo per la costruzione del Socialismo del Secolo XXI ci sono. Andiamo da ampi strati di proletariato urbano (operai e lavoratori dei servizi) e contadino, a soggetti come le comunità indigene che sono anche le portatrici di forme socio-economiche originali oltreché in molti casi pre-capitalistiche. Questi ultimi soggetti sono gli alleati naturali del processo di liberazione dalle limitazioni capitalistiche, come lo furono le minoranze nazionali e le lotte di liberazione nazionali nei territori occupati dal nazi-fascismo durante la seconda guerra mondiale.
Non dobbiamo, però, confondere la tipologia socio-economica di cui è portatrice la comunità nativa col socialismo. Quest’ultimo non nasce dall’autoconsumo, ma dalla sovrabbondanza produttiva (ma non distributiva) del capitalismo, del quale intende abbattere le limitazioni riguardanti le forze produttive (lavoratori) che da semplici strumenti mercificati di produzione devono diventare soggetti coscienti della produzione stessa.
Ancora: il rischio di trasporre il modello latinoamericano alla realtà europea sconta almeno un paio di idiosincrasie: la differente storia del “socialismo applicato” nei 2 continenti; la diversa strada intrapresa dallo sviluppo neo-capitalista del dopoguerra. Voglio, prima di procedere, essere chiaro: un aggancio tra noi e il sudamerica va fatto, non c’è dubbio. Bisogna solo cercare di inquadrare meglio le diverse situazioni ed arrivare ad una strategia e ad una tattica che, per approssimazioni, possano portare alla realizzazione dei nostri obiettivi.
L’applicazione dei modelli di Socialismo reale europei, molto volte solamente un Capitalismo di Stato forma di passaggio necessaria ma non sufficiente, nel quale seguendo la lezione keynesiana, il capitalista collettivo cioè lo stato investiva creando domanda aggregata (scaricando sulla collettività il problema della valorizzazione del capitale), finanziando così il debito pubblico (non si era ancora usciti dai legacci del mercato) diventava una panacea ai mali sociali del capitalismo. Il modello keynesiano mi sta simpatico. Ma non ci credo. Per la semplice ragione che il problema da risolvere nel sistema capitalistico non è nella circolazione del capitale e nella distribuzione del reddito ma più a monte ancora, cioè nell’atto stesso della produzione della merce.
E’ da sfatare la centralità del problema dei redditi. E’ illusorio (e populista) parlarne in una società a proprietà privata. Sappiamo, inoltre, che senza produzione non c’è reddito, capitalisticamente parlando, dimostrando la dipendenza del seconda dalla prima e non viceversa. Il problema da affrontare è: produrre che cosa e come.
Produrre per i bisogni, slegando la produzione dalla legge economica del valore. Nella polemica tra economisti americani neo-marxisti (keynesiani di sinistra) e consiliaristi io mi schiero con gli ultimi ben rappresentati da Mattick nelle cui teorizzazioni riconosco argomenti di stimolo e ricerca indispensabili.
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