Il pianeta startup è assolutamente tanto nuovo quanto complesso. O no? Forse, non è del tutto vero. Complesso lo è certamente, come tutte le cose di questo mondo. Tuttavia, si è sempre parlato ed agito nel senso di aprire e gestire ditte nuove, creare società in grado di navigare nel mare magnum della globalizzazione. Negli ultimi tempi, fare qualcosa di nuovo, aprire un’azienda più o meno innovativa, si chiama (fare) startup. Un nome diverso per una cosa, in realtà, già vista.
Ne esistono di tutti i tipi ed in tutto il mondo, realtà che si articolano attraverso varie e molteplici forme culturali, priorità d’investimento, progetti economici e geo-politici. Gli snodi geo-strategici delle startup come sistema mondiale di relazioni industriali sono i seguenti: Silicon Valley, Mit di Boston, Berlino, in misura minore Tel Aviv, poi Bangalore in India, Shenzhen e Hong Kong, Pechino in Cina. Questi sono i grandi centri aggregatori a livello mondiale e non significa che, all’interno dei singoli paesi non ci siano comunque della piccole realtà che creano e si muovono verso la cosiddetta innovazione. Per far funzionare l’innovazione e la creazione di startups è, però, necessario un prerequisito fondamentale: un sistema universitario funzionante e che abbia dei collegamenti costruttivi ed efficaci col mondo del lavoro. Un sistema che crei dei posti di lavoro.
A questo punto, comunque, vale la pena ricordare che le startup, al di là di ogni retorica, sono il modo escogitato da un sistema molto in crisi per privatizzare ulteriormente il lavoro, e le relazioni che ne conseguono, i rapporti tra persone in generale e, seppur la cosa superficialmente sia molto accattivante, porta con sé una serie notevole di problemi. Appunto, una privatizzazione totale dei rapporti sociali: inventate, create, apritevi una ditta e pensate a voi stessi, poiché i mezzi i governi non li hanno, il lavoro non c’è ed il settore statale deve ridimensionarsi.
Da parte mia ho avuto la fortuna di visitare il quartier generale di Grana (grana.com) la startup che produce abbigliamento, situata ad Hong Kong, lo scorso novembre. Posso dire che la visita e le parole scambiate con una segretaria ivi presente che sembrava più una passante che non un’addetta a filtrare le visite, sono state illuminanti e certamente fondamentali al fine di inquadrare la situazione. Intanto la sede della startup era stata spostata di qualche isolato nel quartiere di Wong Chuck Hang ad est di Aberdeen, all’interno di un grande palazzo ad uso industriale che avrà avuto all’incirca 50/60 anni, con norme sulla sicurezza non del tutto rispettate.
Una premessa che vuol servire come inquadramento dell’azienda di cui vado a parlare. Grana non produce direttamente l’abbigliamento che vende, lo fa produrre da altri, nei laboratori cinesi a pochi passi da Hong Kong e cioè a Shenzhen o a Guangzhou, e poi lo vende attraverso il proprio network sia online che in alcuni negozi. Il sistema di vendita adottato si chiama dropshipping e, sotto questo profilo, non è originale e l’azienda è semplicemente una parte del processo di commercializzazione del prodotto. Ciò che invece è originale è il fatto che quello che viene prodotto è il risultato di una ricerca globale sui tessuti, in modo tale da utilizzarli, anche insieme, nella produzione di ogni singolo capo. E non parliamo di tessuti banali, ma spesso di tessuti di livello medio alto, come ad esempio la seta.
Torniamo dove eravamo rimasti. L’ascensore si ferma in un pianerottolo che separa due ali del palazzo, a quel piano completamente adibito all’attività in questione. Nell’ala (uscendo) a sinistra il servizio impacchettamento e spedizione dei prodotti, in quella di destra gli “uffici amministrativi e di marketing” composti da alcuni tavoli tramandati da generazioni con sopra dei portatili (neanche delle postazioni fisse). Ambienti un pò sporchi e trasandati, parliamo del miracolo asiatico delle startup, e nel caso di incidente sul lavoro vorrei capire come fanno ad intervenire i sanitari per soccorrere le persone in questo luogo. Alcuni impiegati mangiano al tavolo, sopra i computer non potendo, evidentemente, uscire in pausa pranzo. Un cane si sposta da un ala all’altra del piano con aria eccitata, sperando di incontrare qualcuno che gli faccia una carezza o gli dia qualcosa da mangiare.
Premetto che avevo scritto da Linkedin alcuni giorni prima sia al grande capo Luke che al suo socio Wittgen per un appuntamento, al quale non avevano nemmeno trovato l’educazione di rispondere. Comunque, veniamo accolti, per modo di dire, dalla famosa segretaria che con fare singolare ci chiede che cosa stessimo facendo lì. Tra una spiegazione e l’altra, invece di farci accomodare ci tiene fuori dai locali adibiti ad uffici spiegandoci che non abbiamo il permesso di entrarvi (nonostante non ci fosse alcun tipo di pericolo che non avessimo già riscontrato nella parte comune del palazzo) e va dal grande capo che avevo intravisto, per chiedergli che fare con noi. Dopo aver ricevuto gli ordini se ne esce dicendoci, con fare insolente, che il capo non c’è e comunque non erano interessati a parlarci. Prendiamo coscienza del fatto di non essere i benvenuti, ci guardiamo attorno e realizziamo che è il caso di andarcene.
Il cane ripassa in mezzo alle nostre gambe dirigendosi verso il reparto spedizioni, gli impiegati seduti a mangiare sui loro tavoli continuano a fissare i rispettivi schermi dei portatili, al reparto spedizioni un giovane asiatico prepara i colli da far scendere per essere spediti, e noi riprendiamo – un pò inorriditi da tanta foga nel nasconderci un qualcosa che non è dato sapere – l’ascensore.
Ci fermiamo al pianoterra e, coll’ascensore seguente, vediamo il grande capo che se ne esce con fare da gnorri come se nulla fosse, magari credendo di non essere stato riconosciuto. Lunga vita alle startup ed ai loro gloriosi dipendenti.
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