di Sergio Mauri
Dante non deve stabilire – intellettualisticamente – l’identità selva-peccato: i due termini sono per lui interscambiabili. Egli non inventa queste concretizzazioni; sono quelle della tradizione biblica ed esegetica ed anche dei poeti profani. Fanno parte del linguaggio poetico-religioso del tempo. Dante parte col 1° verso del Proemio, da un versetto del profeta Isaia. Anche la precisazione cronologica del viaggio (a 35 anni) e non solo mutuata dal profeta, ma ricca di significati.
L’identificazione della vita era della tradizione letterario-religiosa (Agostino, Confessioni, X, XXXV). Dante ne aveva già attinto nel Convivio (IV, XXIV, 12). Dante, quando dice che “la selva è amara” usa le parole dell’Ecclesiaste (VII, 27).
San Paolo con l’Epistola ai Romani (XIII, 11) identifica il peccato col sonno.
Già i Salmi avevano parlato del monte (Ps. CXX, 1). Ripetutamente nella Bibbia si incontra il simbolo del colle.
Dio viene identificato con il sole, nel Convivio (III, XXII, 7). Notte e tenebre sono sinonimo di peccato e smarrimento. La selva oscura è figurazione della perdita della ragione, cioè del libero arbitrio. Infine, in Geremia (V, 6) vi sono le tre fiere.
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