Era la fine di ottobre del 1987 e mi trovavo a Padova. C’erano dei compagni, dei marxisti più o meno eretici, con i quali si parlava di Thomas Sankara, del suo progetto politico, della sua morte prematura, appena un paio di settimane prima.
Uno di questi lo avevamo mandato in Burkina Faso e ci raccontava la sua esperienza solidale. Le difficoltà alimentari, gli sforzi sovrumani dei comunisti burkinabè, la costruzione di servizi di base, di produzioni atte a sfamare la popolazione. In un paese dove c’erano più insetti nascosti nella sabbia che mucche.
Sankara era rispettato anche nei circoli marxisti meno connotati dal terzomondismo per il suo coraggio e la grandezza del suo progetto: costruire il socialismo nel deserto!
Una cosa pazzesca e sublime al tempo stesso. In pochi, nel mondo, stavano dalla sua parte; uno di questi era Samir Amin che dava al compagno burkinabè indicazioni, esperienze, una rete di sostegno.
Nella grigia Europa, nell’assonnata Italia, Il Burkina Faso non contava nulla, mentre Craxi, Andreotti e Forlani e la “Milano da bere” andavano per la maggiore.
I banchetti del PCI parlavano della questione morale e delle possibili alleanze post-elettorali. L’ineffabile PCI. Il “migliorismo” avanzava, i lavoratori avevano perduto il punto di contingenza.
Sankara parlava di uguaglianza, di sfamare tutti i burkinabè, parlava di un debito inaccettabile, di un debito imperialistico e colonizzatore, di un debito immorale imposto dagli stessi soggetti che avevano massacrato l’Africa.
Le “Idi di marzo” slittavano ad ottobre.
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