Questo libro merita un approfondimento speciale ed è quello che voglio fare con questa recensione. Il libro è pubblicato in lingua inglese e, a oggi, non ci sono traduzioni italiane. Tuttavia, con un po’ di impegno, per chi non è di madrelingua inglese, il volume è leggibile.
Il testo è rivolto a chiunque, ma politicamente parlando, nasce dalla problematica questione palestinese e a ciò che potrebbe decretare la fine dell’occupazione israeliana dei territori palestinesi[1], cosa che, sebbene i contesti (India tra il 1930 e il 1947 e Palestina tra il 1948 e oggi) siano piuttosto diversi. Ma rimane la questione fondamentale in comune: l’occupazione di una forza (imperiale nel caso britannico, di (sub)imperialismo regionale nel caso di Israele) esterna che opprime brutalmente chi in quelle terre ci è nato. Inoltre, essendo Finkelstein di sinistra, il testo parla a coloro che fanno parte del “campo progressista” in senso ampio ed è, sotto diversi aspetti, provocatorio, nel senso che sfata alcuni miti che dell’attivismo gandhiano ci si è costruiti e, soprattutto, non può accogliere le idee di molta sinistra su Gandhi come un rinunciatario, un fifone[2], uno che non ha influito positivamente sulla storia economico-sociale dell’India.
Questo libro è il risultato di una ricerca effettuata presso la Public Library di New York. Il corpus dell’opera completa di Gandhi, ci informa l’autore, consiste in 98 volumi di circa 500 pagine ciascuno. Di questi volumi, Finkelstein ha scoperto che, al 2012, data della pubblicazione del suo lavoro, solo uno di essi era stato richiesto in prestito. Circa la metà dei contenuti consiste in lettere che il Mahatma si scambiava con vari corrispondenti, talvolta non ricambiato, alcuni dei quali famosi e di un certo peso politico. Un nome per tutti: Hitler. Il contenuto dei testi, quel 50%, si riferisce per lo più a questioni inerenti all’Induismo e a come essere un bravo induista, ma anche a questioni inerenti i rituali, il cibo, la salute. C’è una parte, nota Finkelstein, in cui Gandhi parla del problema dell’alcoolismo e del perché fosse diventato una bandiera di lotta per il suo movimento. Con tutti i problemi dell’India, perché il Mahatma scelse proprio l’alcoolismo, si sono chiesti in molti? Gandhi risponde dicendo che bisognava iniziare da dove l’opinione pubblica riconosceva il problema. La società indiana lo aveva, infatti, riconosciuto chiaramente come un problema ed era lì, dunque, che bisognava puntare raccogliendo l’istanza. Le articolazioni di una strategia politica, i suoi momenti precipui, devono fondarsi su questioni concrete e riconoscibili non dalle élite, ma dalle masse. Aggiungeva Gandhi che la politica non serviva a illuminare le masse, ma ad accelerare il loro entrare in azione.
Finkelstein si occupa, dunque, di Gandhi sia come interesse generale per una politica “di sinistra”, sia nel particolare come possibile viatico di una strategia politica per risolvere la questione palestinese. Nella sua ricerca, Finkelstein, si è concentrato, soprattutto, sul periodo 1930-1947 nel quale la strategia politica della nonviolenza ha potuto essere testata.
L’autore ci restituisce un’immagine di Gandhi molto più chiara e delineata di quella che solitamente si legge o si sente nei commentari indirizzati al grande pubblico. Gandhi metteva al primo posto il coraggio rispetto alla non violenza e metteva al posto più basso, considerandola la massima turpitudine, la codardia e non la violenza; sia chiaro, questa scala di valori era in stretta relazione con la sua azione e strategia politiche e un codardo, per Gandhi, non meritava nemmeno di vivere.
Gandhi era un autocrate, politicamente parlando: con lui non si poteva dissentire, non era “previsto”, nel suo schema etico-politico. Non era decisamente quello che può essere definito come un “democratico”: l’urgenza e la durezza della lotta all’Impero britannico non lo permetteva. Soleva imporre ai militanti non-violenti, i satyagrahi, un livello di abnegazione alla causa decisamente elevatissimo, uno standard di attivismo che noi potremmo tranquillamente definire come folle. Non era interessato ai bei discorsi o alle dichiarazioni roboanti, ma diceva a chi lo circondava, che gli avrebbe dato ascolto solo dopo che fosse tornato con la testa rotta da una manifestazione o che almeno fosse disposto a farsela rompere. Ecco un ulteriore tassello della strategia politica gandhiana: attraverso il sacrificio dei satyagrahi, il gruppo più conseguente dei suoi sostenitori, ma anche attraverso il sacrificio di se stesso, visto che non si risparmiava affatto, attraverso quel sacrificio, quindi, intendeva smuovere gli indecisi e farli scendere in piazza.
Dal mio punto di vista, per comprendere e leggere in modo storicamente obiettivo sia la storia di Gandhi, sia questo saggio in particolare, è necessario contestualizzare la biografia gandhiana nel tempo e nello spazio che le sono propri; al contrario non riusciremmo a comprenderne le richieste, le strategie, la teorizzazione della nonviolenza, il rapporto col governo inglese, con la classe dominante indiana, con i contadini indiani che conosceva profondamente, infatti aveva viaggiato in lungo e in largo per il subcontinente indiano assimilandone i problemi e le richieste.
Un altro aspetto che emerge dal libro è quello della “voce interiore” che ispirava l’azione politica del Mahatma e che oggi potrebbe essere rubricato, in accordo con Finkelstein, sotto la voce “intuito politico”. Potremmo inquadrarlo all’interno di un rapporto conflittuale tra razionalità e irrazionalità. È ovvio che non si può intavolare un discorso razionale con chi chiama in causa la propria “voce interiore”; si passa direttamente al livello della trascendenza e della fede. Inoltre, il seguire la propria voce interiore porta direttamente a un imporre il proprio punto di vista personale senza troppi distinguo (l’atteggiamento autocratico di qualche capoverso fa) proprio perché impostato sul proprio carisma personale.
Finkelstein riconosce a Gandhi intuizione politica e, per l’appunto, carisma, come non nasconde i limiti e gli errori di valutazione dello stesso. I detrattori di Gandhi solitamente sottolineano i fallimenti osservati a livello economico nello sviluppo susseguente alla fine dell’infame dominio coloniale britannico. Ma se noi teniamo conto delle risorse sottratte all’India (qualcosa come 45 trilioni di dollari, dalla ricerca di Utsa Patnaik[3]) e del fatto che obiettivo di Gandhi non fosse quello di ricostruire l’India economicamente (non era un economista) immediatamente dopo la fine del colonialismo (ci sarebbe voluto del tempo), ma quello di rimandare a casa gli inglesi, beh, allora Gandhi ha avuto successo e lo ha avuto con dei metodi non violenti sicuramente, se comparati a quelli della lotta armata che avrebbe di certo mietuto più vittime.
Vediamo ora brevemente tre questioni affrontate nel libro: 1) la visita di Gandhi all’Italia fascista; 2) la lettera a Hitler; 3) l’importanza della sua strategia per qualunque forza politica che voglia rappresentare l’interesse degli oppressi.
Gandhi, durante la sua visita italiana, ebbe occasione di apprezzare l’applicazione di alcune tecnologie nel campo agricolo, nella coltivazione e raccolta dei prodotti della terra. Mussolini, per Gandhi rimaneva, tuttavia, un enigma, anche se riconosceva vi potessero essere degli ambiti in cui il fascismo avrebbe detenuto alcuni successi: dallo stato sociale a una certa industrializzazione del paese. Parlare, però, di una simpatia di Gandhi per il regime fascista appare come avventato e fuori luogo.
Per quanto riguarda Hitler, Gandhi gli indirizzò una lettera in cui, sostanzialmente, intendeva “sciogliere il cuore” del dittatore tedesco, opera velleitaria e impossibile (come sappiamo). Non risulta, chiaramente, alcuna risposta del Führer, ma è interessante notare come Gandhi volesse usare argomenti persuasivi, sottintendendo una condivisione di umanità con “l’essere umano” Hitler, oltre le “apparenze mostruose” del dittatore. Gli argomenti gandhiani non prevedono, tuttavia, alcuna simpatia per Hitler: rimaneva sempre chiaro per Gandhi come fosse essenziale e necessario combattere dalla parte degli Alleati, con cui i conti riguardanti il colonialismo si sarebbero regolati poi.
Infine, la strategia politica di Gandhi. È ovvio che l’azione politica del Mahatma sia stata particolarmente segnata da una sua contestualizzazione spazio-temporale: quel tempo e quello spazio, storico e culturale oltre che politico, inclusa l’esperienza sudafricana antecedente, sono eminentemente caratterizzanti tutta la strategia. Il punto fondamentale, comunque, non attiene alla nonviolenza in senso stretto (abbiamo visto che il coraggio di esporsi alle manifestazioni è il primo dei valori per Gandhi), ma alla modalità di coinvolgimento delle masse, solitamente passive, nella lotta politica, essendo il “reclutamento” dei satyagrahi essenzialmente sottoposto alla capacità di massimo sacrificio degli stessi. Circa il coinvolgimento delle masse, c’è qualche risposta interessante nel libro: renderle empatiche all’esempio dei satyagrahi e muoverle a reagire alla violenza perpetrata dagli inglesi. Tuttavia, come si sarebbe misurata l’efficacia della strategia? In breve, il potere doveva essere messo in crisi dalla “aperta ribellione” delle masse, questo era il vero punto, che si caratterizzava per quantità, ma anche per compattezza, coadiuvate da un gruppo dirigente determinato. Una strategia che implica un sacrificio in termini di vite umane che, tuttavia, in rapporto a esperienze di lotta armata, hanno sempre visto esiti meno cruenti.
La strategia politica di Gandhi non è da sottovalutare, poiché potrebbe applicarsi a un insieme di situazioni correnti o in divenire. Forse non strettamente riguardo alla lotta di liberazione palestinese, ma in determinate situazioni attuabili da forze politiche che intendono far cadere dei governi, metterli in seria crisi o perseguire finalità rivoluzionarie con la non violenza, non scevra da sacrifici di una parte dei suoi adepti, al fine di raggiungere uno scopo, onestamente raggiunto da Gandhi, con meno morti che non una guerra civile prolungata nel tempo. L’argomento, in soldoni, è questo. Facciamo un esperimento mentale.
Nel recente passato, quello delle restrizioni alle libertà civili anche sotto il profilo costituzionale causate dal Covid, a un certo punto gli italiani (per fermarci al nostro pese) sono scesi in piazza e la rabbia aumentava di giorno in giorno. Una forza politica organizzata che avesse adottato la nonviolenza avrebbe potuto chiamare alla mobilitazione generale e magari dirigersi verso i palazzi del potere fino a che ne fosse derivata la caduta del governo. Per ottenere ciò sarebbero occorse tra le dieci e le venti milioni di persone in piazza nel paese[4], per premere contro l’esecutivo.
A questo tipo di esperimento mentale si possono sollevare diverse obiezioni, prima fra tutte il fatto che il potere non avrebbe mollato comunque. Certo, ma se il potere si vede costretto a fare qualche morto, registrando una conseguente lievitazione della rabbia popolare, oltre che del consesso internazionale, esso si mette in condizioni di perdere la guerra e non solo la battaglia.
Vediamo infine le critiche che Finkelstein muove alla strategia politica di Gandhi. Per Finkelstein Gandhi non era un pacifista in senso letterale: la sua scelta della non violenza era principalmente strategica, mirata a sconfiggere l’imperialismo britannico in India. Secondo Finkelstein, Gandhi si aspettava che i suoi seguaci affrontassero la violenza con coraggio, e in questo senso, la sua non violenza era più brutale della violenza militare, poiché richiedeva un sacrificio estremo da parte dei partecipanti.
Inoltre, Finkelstein mette in discussione la coerenza del pensiero di Gandhi, evidenziando le contraddizioni presenti nei suoi scritti. Per esempio, Gandhi promuoveva l’idea di affrontare la morte con coraggio, suggerendo che il sacrificio personale potesse trasformare i cuori degli oppressori. Tuttavia, l’autore critica questa visione come impraticabile e inadeguata di fronte alla realtà delle oppressioni.
Un altro punto critico è l’enfasi di Gandhi sul sacrificio e sulla paura della morte. Finkelstein sottolinea che Gandhi considerava il sacrificio come un mezzo per ottenere giustizia, ma questo approccio può risultare problematico, in quanto ignora le conseguenze reali e immediate della violenza e dell’oppressione. La sua insistenza sul sacrificio come forma di resistenza può apparire come una forma di idealismo distaccato dalla realtà o, addirittura come un “culto della morte”.
Finkelstein suggerisce che le teorie di Gandhi, pur avendo avuto un impatto significativo nel contesto storico della lotta per l’indipendenza indiana, possano risultare inadeguate di fronte alle sfide contemporanee, come il conflitto israelo-palestinese. Infatti, lo avevo già accennato all’inizio di questa recensione e le mie considerazioni, come quelle di Finkelstein sono incentrate sul problema della contestualizzazione spazio-temporale.
In definitiva, i principi di non violenza e resistenza devono essere rivisti e riconsiderati rispetto alla loro possibile applicazione nel mondo contemporaneo. Proprio qui risiede la sfida insita nel lascito dell’esperienza gandhiana.
[1] Norman Finkelstein è un attivista di lungo corso per la causa palestinese.
[2] Gandhi era invece assolutamente consapevole dell’impossibilità di battere l’Impero britannico con la forza.
[3] The Great Loot: How Britain stole $45 trillion from India – IndiaPost NewsPaper, URL: https://indiapost.com/the-great-loot-how-britain-stole-45-trillion-from-india/, consultato il 01/09/2024.
[4] È una mia stima personale.